Parole e simboli: The Great Figure di W.C. Williams
Abstract Published in 1921, The Great Figure is among William Carlos Williams’s most paradigmatic poems. It inspired an equally famous Poster-portrait (1928) by Charles Demuth, the poet’s longtime friend. Both artists may be said to have been ‘Precisionists’: Demuth by direct association with the American Art Movement of this name, Williams by the accuracy of his medium. This essay presents a close analysis of the poem vis-à-vis the painting. To show how difficult it is to turn Williams’s ‘simple’ language into Italian, the essay analyses Vittorio Sereni’s version of the poem.
Keywords William Carlos Williams. Charles Demuth. The Great Figure. I Saw the Figure 5 in Gold. La Grande Cifra.
A Emily Mitchell Wallace
«La semplicità è l’ultima sofisticazione»
(Leonardo da Vinci, Aforismi)
1 Premesse letterarie e artistiche
William Carlos Williams (1883-1963) nacque a Rutherford, cittadina del New Jersey. Pediatra e ostetrico, Williams fu, dunque, un professionista – come Walt Whitman, che era giornalista, e come Wallace Stevens, che era avvocato. Williams è uno dei quattro più grandi poeti del Primo Modernismo statunitense, con Ezra Pound, Robert Frost e Wallace Stevens. Escludiamo T.S. Eliot, perché aveva scelto l’Europa, non solo come residenza, ma soprattutto come lingua, cultura, poetica e religione. Proprio per questa ragione, Williams lo condannò sempre. Non perché non lo stimasse – anzi. Williams, infatti, lo condannò, o meglio, lo deprecò per tutta la vita, perché riteneva che, con i suoi straordinari talenti, avrebbe dovuto restare nel suo paese al fine di aiutarlo ad uscire dalla marginalità culturale in cui si trovava ancora, agli inizi del Novecento (Williams 1951, 174).
Il compito «Make it New» – secondo l’imperativo lanciato da Pound, il fedele amico ed estimatore sia di Eliot, sia di Williams – fu, infatti, portato decisamente avanti proprio dal poeta di Rutherford, che nella sua poesia usò l’«American idiom» (cioè, non la lingua colta britannica, ma il gergo parlato tutti i giorni – come egli stesso scrisse – dalle mamme polacche e italiane del suo territorio), che trasse ispirazione dalla realtà quotidiana del suo paese (da quello che chiamò il suo «local», nelle sue varie sfaccettature, belle o brutte, sciatte o brillanti) e che, per quanto riguarda la prosodia, inventò, sul modello della terzina dantesca, di cui conserva spesso il tono meditativo, anche l’ossimoronico «variable foot», che considerava più adatto al ritmo della parlata statunitense.
Dagli A Few Don’ts (1913) di Pound, Williams apprese a concentrarsi sull’immagine – intesa come «an intellectual and emotional complex in an instant of time» – e a usare «no superfluous word, no adjective, which does not reveal something». Secondo Pound, infatti, l’immagine doveva essere presentata con contorni netti, vale a dire, con parole semplici, ma precise. Tanto che un’ammiratrice e seguace di Williams, la poetessa Denise Levertov, definì ogni suo componimento «a carved stone» (Williams 1998, 116). Se questi furono due principi basilari del Movimento Imagista statunitense, negli anni Williams conobbe e praticò anche altre modalità: dalla scrittura automatica di taglio surrealista a quella che, a mo’ di collage, intercalava poesia e prosa. L’esperienza imagista, tuttavia, restò per lui fondamentale fino alla fine della sua lunga carriera.
Degli altri tre grandi poeti statunitensi appena menzionati – Pound, Frost e Stevens – Williams è il solo ad avere influito su tutto il corso della poesia che venne dopo di lui: dai Beats (Allen Ginsberg, per esempio), ai Black Mountain Poets (Robert Creeley, tra gli altri), dai New York Poets (Frank O’Hara, per citarne solo uno), agli Oggettivisti (per esempio, Louis Zukofsky), dai poeti della San Francisco Renaissance (Kenneth Rexroth, tra gli altri), agli attuali Language Poets (Charles Bernstein, per citarne solo uno). Possiamo affermare, allora, che nessuna lezione ha permeato altrettanto durevolmente la poesia statunitense del ventesimo secolo.
Nelle sue numerose raccolte poetiche (diciotto), nonché nel suo poema epico in cinque libri (Paterson), nei suoi saggi, nei suoi racconti, nella sua trilogia di romanzi, nel suo memorabile affresco sulle origini e sulle caratteristiche della cultura statunitense (In the American Grain), Williams ha mostrato, sulla scia del grande pensatore del secolo precedente, Ralph Waldo Emerson (1803‑1882), come la cultura statunitense avesse caratteristiche proprie ed autoctone, ben diverse da quelle europee, e come questa diversità fosse compito dei suoi artisti esplorare e, andandone fieri, farne oggetto di arte. Non ci fu aspetto del suo paese – e financo della sua regione – che Williams non abbia ritenuto di celebrare: ne esaltò la natura botanica (ai fiori, per esempio, dedicò ben 36 poesie, cf. Giorcelli 2021; ivi comprese le viole gialle che crescono solo sulla costa del Nord-Est atlantico, cf. Giorcelli 2022), la natura faunistica (scrisse poesie sulle trote, sui tordi, sui passerotti, sugli usignoli, sulle tartarughe), perfino gli oggetti che fanno parte dell’esperienza ordinaria e del contesto sociale dei suoi abitanti (dalla carriola dei contadini alle ciminiere delle fabbriche, cf. Giorcelli 2015). In modo analogo, in Paterson, egli sentì di doversi occupare della cittadina del New Jersey, vicina alla sua, la cui storia e il cui paesaggio elevò a emblemi del suo paese. Lontano dalle svenevolezze e dagli artifizi stilistici tardo ottocenteschi, il credo di Williams si condensa nella frase da lui sovente ripetuta: «no ideas but in things», vale a dire, nessuna idea che non provenga dalle cose, dalla realtà in tutta la sua verità. Una realtà, cioè, da guardare e da esaminare a fondo al fine di onorarla nella sua peculiarità e unicità e, quindi, nella sua bellezza, perché: «Anything is good material for poetry. Anything» (Williams 1992, 222).
L’arte nel senso più pieno del termine era ciò che interessava a Williams. Come sappiamo, il Primo Modernismo fu interculturale e multidisciplinare per eccellenza. Originariamente nato dalle innovazioni in ambito architettonico, il Modernismo si accompagnò da subito alle arti visive (con esponenti, in Francia, come Cezanne, Gris, Picasso e Duchamp), alle quali si unì ben presto anche la scrittura. Williams era particolarmente adatto a capire e a seguire questa strada, visto che aveva una madre (cui era molto affezionato), che, portoricana di origine (da cui il suo secondo nome, Carlos), aveva studiato pittura a Parigi. Williams stesso sapeva dipingere. Nella sua giovinezza, infatti, dipinse qualche ritratto e qualche paesaggio. E quando, in tarda età, gli chiesero perché avesse, poi, scelto di dedicarsi alla scrittura, rispose che, avendo deciso di diventare medico e, quindi, di essere sempre in viaggio per visitare le sue pazienti e i bambini affidati alle sue cure, era più facile per lui andare in giro con un blocchetto di foglietti e una penna su cui appuntare le sue immagini e i suoi pensieri, piuttosto che con una tela bagnata: «a wet canvas» (Williams 1954, xiv). Ma del pittore non mancò mai a Williams la capacità di cogliere il nucleo generativo, per così dire, di qualsivoglia dipinto su cui cadeva il suo sguardo. In altre parole, il poeta seppe sempre individuare e far risaltare la struttura portante dei dipinti su cui si soffermava.
Per questa ragione, allora, tra i grandi poeti del Primo Modernismo, Williams fu il solo che con tanta frequenza e con tanta originalità si occupò di arte nella sua arte. Egli compose, infatti, molte èkphrasi: 10 di queste, per esempio, su/da quadri di Peter Brueghel, il vecchio. (Giorcelli 2020b)1
1 In questo, come in altri casi, il fatto che le opere d’arte fossero europee non contraddice la presa di posizione ideologica (l’insistenza sul suo mondo) da parte del poeta: era il suo modo ‘diverso’ di vederle/trattarle che, a suo parere, faceva la differenza.
Non a caso, quindi, Williams fu amico di tanti pittori del suo paese, che, come lui, negli stessi anni, si adoperavano a dipingere il mondo che li circondava, soprattutto dopo la grande esposizione di arte contemporanea - organizzata dal fotografo Alfred Stieglitz –, che si tenne a New York nel 1913: l’Armory Show. In essa, tra i dipinti che enfatizzavano la molteplicità delle prospettive e il trionfo del dinamismo e dell’energia della vita moderna, spiccava quello di Duchamp Nu descendant un escalier, n° 2 (1912). In questo quadro l’artista aveva rappresentato il soggetto sia di fianco, sia frontalmente ed aveva, così, molto colpito gli artisti statunitensi che avevano visitato la mostra, sollecitandoli a rendere, da più prospettive, il movimento frenetico della ‘loro’ civiltà: una civiltà industriale, segnata da oggetti tecnologici efficienti, ma anche, grazie a parametri estetici nuovi, belli.
Tra questi artisti statunitensi pioneristici, che Williams frequentava, c’era, per esempio, Charles Sheeler (1883-1965), pittore e fotografo, che amava presentare il suo paese con contorni ben definiti e che fu sempre affascinato dalle macchine (fu perfino ingaggiato dalla Ford per fotografare i suoi stabilimenti). Williams fu amico anche del pittore Marsden Hartley (1877-1943), che, oltre alla presentazione di soggetti aspri e gagliardi, privilegiava, nelle sue opere, la dimensione espressionista e simbolica.2 Infine, il rapporto di Williams fu particolarmente stretto con Charles Demuth (1883-1935). I due erano diventati amici già ai tempi dell’Università, quando avevano abitato nella stessa pensione a Philadelphia. Tra loro scoppiò immediatamente la scintilla dell’intesa:
2 Secondo MacGowan, il legame tra i due artisti era dovuto sia al fatto che entrambi, in quegli anni, si sentivano marginalizzati, sia perché, per entrambi, era fondamentale il mantenersi a stretto ‘contatto’ con la loro terra e le loro origini (MacGowan 1981, 301‑5). Secondo MacGowan, The Great Figure è un omaggio a Hartley (1984, 90).
Out went my heart to that face [di Demuth]. There was something soft there, a reticence, a welcome, a loneliness that called to me. And he, he must have seen it in me too. We looked, two young men, and at once the tie was cemented. (Williams 1970, 207)
Anche i loro gusti erano molto affini: come Williams, Demuth amava molto i fiori, che dipinse innumerevoli volte.3 Williams gli dedicò, oltre alla sua più innovativa raccolta, Spring and All (1923), anche due poesie floreali, di cui, una, dopo la morte: The Crimson Cyclamen (1936). E mentre Williams cercò sempre di riprodurre gli stili pittorici con/nella lingua – cercò, cioè, di creare con le parole gli effetti della pittura – Demuth amava scrivere poesie e drammi e aveva dipinto varie opere ispirate da scritti di Zola, Poe, James e Proust. Entrambi gli artisti, quindi, ebbero la capacità di «reorient for good the boundaries between their disciplines» (North 1988, 325).
3 Lo splendido giardino della dimora di Demuth a Lancaster (PA) è ora un museo aperto al pubblico.
Va tenuto presente che Demuth, come Sheeler e Hartley, tra gli altri, apparteneva al Movimento pittorico del Precisionismo, che, nato dopo la fine della Prima guerra mondiale, fu, negli Stati Uniti, il primo Movimento pittorico autoctono. Il Precisionismo fu una sorta di fusione tra Cubismo, Futurismo e Dadaismo. Nel Precisionismo, infatti, le geometrie cubiste vengono usate per esaltare le strutture possenti e la vigoria anche tecnologica del mondo statunitense contemporaneo: in particolare, quello della sua vita industriale e urbana, che, nei suoi contorni essenziali, senza, cioè, dettagli superflui (la vicinanza con i principi imagisti è chiara), viene valorizzata in quanto espressione di energia e di vitalità.
E di energia e di vitalità è portatrice la poesia The Great Figure, che prendiamo ora in esame. Benché menzionata da molti critici e studiata da alcuni di essi, essa è così ricca da offrire ancora spunti per un’analisi puntuale. The Great Figure viene considerata paradigmatica dell’arte poetica di Williams perché mette in evidenza ciò che avevano già raggiunto Picasso e Braque con i loro collages: la consapevolezza, cioè, che le parole e i numeri non sono solo significanti e simboli, ma sono anche ‘cose’, dotate di una loro costitutiva fisicità nello spazio e di una loro immediata presa visiva perché prive di distorsioni nella bidimensionalità della tela o della pagina. (North 1988, 326, 337-8).
2 Analisi della poesia e del quadro
The Great Figure
Among the rain
and lights
I saw the figure 5
in gold
on a red
firetruck
moving
tense
unheeded
to gong clangs
siren howls
and wheels rumbling
through the dark city.4
4 La poesia uscì nella raccolta Sour Grapes (1921). La versione che compare qui si trova in Williams 1986, 174. Nella versione apparsa in Sour Grapes la poesia constava di 14 versi, perché, tra il verso 7 («moving») e il verso 8 («tense»), c’era il verso «with weight and urgency», che, successivamente, fu eliminato dal poeta.
Poiché la caratteristica della scrittura poetica di Williams sta nella sua capacità di renderla viva e financo ‘visiva’ tramite l’esattezza delle parole, la sinteticità delle immagini, la stringatezza della sintassi e la rapidità del ritmo impresso dagli enjambements, si noti che qui, con tutti i versi rigorosamente allineati a sinistra, egli non intende spettacolarizzare il soggetto del componimento, proponendolo in una forma che iconicamente lo richiami (anche se, volendolo, forse, avrebbe potuto farlo): niente di formalmente lezioso si trova nelle opere del diretto e vigoroso Williams.
Dal momento che c’è un solo verbo finito, la poesia consta di una sola frase. In essa troviamo trentuno parole in tredici versi. Gli enjambements, che occorrono sovente dopo versi di una sola parola, imprimono un ritmo staccato e martellato, mentre inducono il lettore a prestare grande attenzione alle poche parole e alla loro organizzazione sintattica. A enfatizzare questa sobrietà, il fatto che la poesia non presenta alcun segno di interpunzione: solo il punto finale (nei componimenti che Williams scriverà successivamente mancherà, in molti casi, anche questo a indicare, forse, che, come sosteneva Valéry, la poesia non finisce mai: è solo il poeta che se ne distacca).5
5 Paul Valéry espresse, per la prima volta, questo principio nella conferenza: Propos sur la poésie (1924).
Questo componimento si rifà ad un’esperienza vissuta dal poeta. Nella Autobiography, infatti, egli raccontò che in una calda giornata di luglio a New York, mentre, stanco dal lavoro (in ospedale), per una chiacchierata e una pausa di riposo, si dirigeva verso lo studio di Marsden Hartley sulla Quindicesima Strada:6
6 È interessante annotare che la casa dell’amico si trovava nella quindicesima strada: il 15 è un multiplo del 5. È, forse, un presagio?
As I approached his number I heard a great clatter of bells and the roar of a fire engine passing the end of the street […]. I turned just in time to see a golden figure 5 on a red background flash by. The impression was so sudden and forceful that I took a piece of paper out of my pocket and wrote a short poem about it. (Williams 1951, 172)
Da notare, in questa memoria, l’uso di «number», o, meglio, di «his number», riferito a Hartley (e solo per analogia al numero civico della casa in cui il pittore abitava): una sorta di personalizzazione del numero che, connesso all’individuo, sembra assumere (sembra attribuirsi) la sua identità, financo il suo corpo.7 Analogamente alla poesia, il numero arabo che identifica il camion dei pompieri viene chiamato «figure». A differenza di ciò che compare nella poesia, invece, mentre l’episodio occorse verosimilmente di sera (Williams aveva finito di lavorare) e la giornata era dichiaratamente calda, non c’è alcun accenno al fatto che fosse anche piovosa.
7 Non concordiamo con North, secondo il quale, sulla base di questo numero che si identifica con Hartley, il 5 della poesia rappresenterebbe Williams (North 1988, 343). Tra l’altro, mentre nella Autobiography compaiono sia «number» sia «figure», nella poesia il primo non c’è e, quindi, a nostro avviso, il problema neppure si pone. Una tale identificazione, comunque, è metaforicamente più verosimile nel caso del dipinto di Demuth, come vedremo.
Come in molti altri componimenti di Williams, in questo non c’è alcuna narrazione (Riffaterre 1986, 1-13): non si sa perché il carro dei pompieri sia stato chiamato e da chi, dove si dirige, quale fuoco va a spegnere, chi va a salvare. Non viene espresso alcun sentimento del poeta. C’è solo l’implicito anonimato della città e la viva, profonda «impression» (lo shock) di chi guarda una realtà (improvvisa, inaspettata), che, prelevata dall’esperienza di ogni giorno e fissata per sempre sulla pagina, ne preserva, nelle parole e nel ritmo, nei colori e nelle forme, tutta la forza. In altre parole, Williams mostra come rendere eterni la ‘cosa’ e l’istante.
Nella rapidità, nel fragore e nei colori sgargianti che caratterizzano le varie attività della grande città, non è, dunque, una storia umana a interessare il poeta, non è la funzione del camion a indurlo a scrivere, ma è la percezione o, meglio – e questo è il punto –, è la bellezza dell’apparizione/evento in sé che lo ispira, dal momento che, con le loro caratteristiche fisiche, il numero e il camion dei pompieri si imprimono nella sua immaginazione. Di più. Il camion diventa, per lui, un ready made, un objet trouvé, come quelli sbalorditivi di Duchamp,8 che, in alcuni casi, lo avevano molto favorevolmente colpito quando li aveva visti nel 1913.9
8 A cominciare dalla sua celebre e discussa: Fountain.
9 Circa il ‘Nudo’ di Duchamp, per esempio, Williams scrisse, «I laughed out loud when first I saw it, happily, with relief» (Williams 1951, 134).
Nel titolo della poesia, l’aggettivo «great», secondo l’uso che se ne fa tradizionalmente, sembrerebbe anticipare la presentazione di un protagonista importante. E sarà così, infatti, anche se non si tratterà di un protagonista tradizionale. Non solo, ma, in una nota a una lettera inviata al poeta Henry W. Wells nel 1955 (Williams 1986, 500) – più di trent’anni dopo la composizione della poesia e quattro anni dopo l’uscita della Autobiography –, Williams scrisse che «great», nel titolo della poesia, era ironico perché, in quella fatidica giornata, oltre a lui, nessun altro, tra la gente che si trovava accanto a lui, aveva prestato attenzione a quel numero e a quel camion. Invece il poeta, vedendoli, ne era rimasto folgorato come da un’illuminazione e aveva vissuto quel momento come una rivelazione. Secondo quanto sappiamo del modo di vivere la realtà da parte di Williams, non si trattava certamente di una rivelazione simile a quella che proviene dal soprannaturale, ma era, piuttosto, simile a quella che origina nell’ordinario, nel comune, ma che ha sia in sé, sia nella circostanza in cui si verifica, qualcosa che il poeta percepisce come stra-ordinario. Per Williams, come per San Francesco – un Santo che il poeta, fondamentalmente laico, amava (Giorcelli 2020a) – il sublime si poteva trovare, infatti, hic et nunc, vale a dire, nella vita di tutti i giorni, anche nei suoi aspetti più umili e più usuali. Bastava saperli vedere e riconoscere come tali.10
10 Più ambiguo nel giudizio sulle poesie di Williams di questo periodo, sembra essere Guimond, che scrive: «All of these poems use deliberately commonplace, even drab, urban imagery […] their effect is artificially, theatrically rapid, vivid, and forceful» (Guimond 1968, 44).
In apertura, la poesia abbina la natura all’artificialità: entrambe, la pioggia che appanna e le luci che abbagliano, fanno parte del quotidiano e vengono evocate in senso generico. Niente di speciale le caratterizza, dal momento che non c’è alcun aggettivo che le qualifica. Servono, però, a sottintendere accecamento (l’oscurità) e disagio (la pioggia serve al poeta per rendere più singolare, aggravandola, l’esperienza autobiografica). L’essere umano, «I», l’io poetante, che, a causa loro, non può che vedere confusamente, compare al verso 3, ma immediatamente sembra scomparire, quasi fosse assorbito dall’arrivo del grosso oggetto meccanico: il camion dei pompieri con il numero che lo identifica. Gli oggetti, le ‘cose’, sembrano, dunque, inglobare, sovrastare, quasi annullare, l’io.11
11 Contrariamente a quanto sostiene un critico (North 1988, 329-30), non riteniamo che siano attribuibili all’io poetante gli aggettivi «moving», «tense» e «unheeded» (vv. 7, 8, 9) sia per ciò che Williams specifica nella lettera a Wells, sia per le due precedenti versioni di questa poesia (Marling 1982, 172-3). È vero, peraltro, che, siccome il centro sintattico (v. 3) della poesia non coincide con il suo centro visivo (v. 7), si crea una qualche ambiguità.
Da notare che, contro convenzione, specialmente per quanto riguarda la poesia, Williams scrive il numero non utilizzando le lettere dell’alfabeto, ma il simbolo numerico arabo.12 Sia che la poesia venga letta mentalmente, sia che venga letta ad alta voce, però, inevitabilmente, il numero viene tradotto in lettere dell’alfabeto. Ma in quanto segno grafico, in quanto rappresentazione simbolica, il numero arabo acquista una dimensione non solo quantitativa, ma anche fisica, come quella di un corpo che occupa uno spazio, come quella di una ‘cosa’. Il poeta, infatti, tramite la sua forma, sembra voler metterne in secondo piano la dimensione astratta per evidenziarne, invece, la concretezza, la fisicità. È proprio per questa sua forma (per questa sua corposità, enfatizzata, forse, anche dalla sua parziale rotondità) che il poeta lo chiama «figure» e non, più anodinamente e astrattamente, «number». Non meno delle parole che lo circondano, il numero, nella sua materialità, nella sua visiva immediatezza (North 1988, 338) diventa significante e significato: sta per ed è.
12 Le opere d’arte visive (specialmente dal Modernismo in poi) hanno spesso numeri arabi come titoli. Tra le tante motivazioni, anche quella di lasciare liberi chi le vede/compra di formarsi una propria (e variabile) opinione. In verità, i numeri grafici, non romani, non sono propriamente arabi, ma provengono dall’India.
Di primo acchito sembrerebbero essere il colore giallo-oro13 del 514 e il colore rosso15 del camion (intensificato dal colore rosso del fuoco, «fire», quale si ritrova nella sua stessa denominazione) a concentrare su di sé l’attenzione dell’‘io poetante’.16 Invece, come è evidente dalla seconda metà della poesia, sono il movimento e il rumore del camion a sopraffarlo. Anzi, è il rumore che ha la meglio perfino sul movimento, poiché, nonostante l’energia che sprigiona, anche il movimento viene sovrastato dalla aggressività del rumore (nell’Autobiography, infatti, Williams aveva specificato di essere stato colpito dal «clatter» e dal «roar»).
13 Simbolicamente l’oro sta per «l’absolue perfection», «la connaissance» e «l’immortalité» (Chevalier-Gheerbrant 1982, 705).
14 Simbolicamente il 5 è «nombre […] du centre, de l’harmonie et de l’équilibre […] de l’ordre et de la perfection» (Chevalier-Gheerbrant 1982, 254).
15 Simbolicamente il rosso vivo è, perlopiù, «image d’ardeur et de beauté, de force impulsive et généreuse, de jeunesse, de santé, de richesse, d’Éros libre et triomphant» (Chevalier-Gheerbrant 1982, 832).
16 Ai versi 4 e 5 («in gold/on a red») le due preposizioni diverse e i due colori diversi (anche sintatticamente: uno è un sostantivo e l’altro è un aggettivo) sottolineano con fulminea rapidità le differenze negli apparenti parallelismi (North 1988, 328).
In particolare, «tense», al verso 8, ha una triplice valenza. Potrebbe essere riferito al 5, in quanto numero che, con quel colore e su quello sfondo, diventa «intenso», vale a dire, carico, penetrante e, quindi, memorabile, oppure/anche «tense» potrebbe essere riferito al camion, in quanto «teso» precipitosamente verso la sua (ignota) destinazione. Metaforicamente, però – e, questa, sarebbe la sola parola della poesia ad avere un significato anche metaforico, non rimandando a qualcosa di concreto –, «tense» potrebbe riferirsi ai mai menzionati pompieri, indicando, del tutto implicitamente, l’ansia con cui, dentro e sul camion, essi si dirigono verso il luogo che ha richiesto il loro intervento. Immediatamente dopo, al verso 9, «unheeded» – secondo quanto abbiamo appreso dalla lettera di Williams a Wells – sembrerebbe essere riferito agli altri passanti, che, di nuovo, non vengono menzionati proprio perché non prestano alcuna attenzione al sopraggiungere del veicolo. Quindi, l’io poetante, l’artista, è l’unico a rendersi conto e a onorare questa irruente, chiassosa e stra-ordinaria (e, quindi, degna di essere oggetto di arte) realtà quotidiana. Tra coloro che non prestano attenzione a ciò che li circonda potrebbero essere compresi anche i lettori della poesia? Forse, sì. In questo caso, essa invierebbe anche un indiretto monito pedagogico a chi legge.
Si tratta, dunque, di un camion, che «si muove» («moving», v. 7) – ma con il camion si muove anche il numero 5, che lo indica – e che, con il movimento, crea un grande fracasso: «gong clangs», «siren howls», «wheels rumbling». Poiché il verso 7 è esattamente al centro del componimento, se proprio volessimo vedere una forma iconica nella struttura tipografica della poesia, facendo perno su questo verso centrale, i sei che lo precedono e i sei che lo seguono potrebbero essere visti come contenuti all’interno di due (frastagliate) linee sbieche (da destra a sinistra e da sinistra a destra) a indicare il segno matematico ‘minore di’: <. Ma ‘minore di’ chi/che cosa? Forse, con grande modestia, l’autore potrebbe voler significare che, comunque, l’effetto del componimento su chi legge è ‘minore di’ quello operato dal reale sull’‘io’ poetante. Si tratterebbe, quindi, di una (possibile) forma iconica non meramente vezzosa, ma concettuale.
Ritornando alla poesia, con «gong clangs» e «siren howls» Williams usa due espressioni composte da due sostantivi, cioè, da parti del discorso che hanno ‘sostanza’. Non solo, ma c’è molto di bestiale («howls») in questo rumore assordante. Con «wheels rumbling», invece, l’importanza viene data principalmente alle ruote, che sono all’origine del movimento e, quindi, anche del rumore che producono. Le «ruote», infatti, sono accompagnate dal participio aggettivale che le qualifica in quanto sottolinea il fragore causato da loro. Si tratta di un fragore aggressivo, non meno dei colori appena menzionati. Dal titolo alla fine, il suono roboante delle undici «r» domina la poesia.
Nell’ultimo verso, ai due colori iniziali si aggiunge l’implicito colore nero della «dark city» (Chevalier-Gheerbrant 1982, 671), in cui al buio della notte (in cui tutto annega) si accompagna la valutazione simbolicamente drammatica della città. Se, infatti, la città affascina, il poeta è ben consapevole che la città può uccidere (come, del resto, anche il camion). In tutti e tre i casi, si tratta di colori forti, dal deciso impatto simbolico, espressi – ad alimentare il contrasto – con una sintassi asciutta al punto da essere sconcertante.
Infine, va notato come, con l’ultimo verso, la poesia ritorni su sé stessa: dal generico inizio a questa generica fine. Se all’inizio pioggia e luci non avevano niente di specifico a qualificarle, ora, nel finale, il camion si perde nell’indistinto buio. La visione emerge dalla notte (per cui sono necessarie le luci) e svanisce nella notte (che la inghiotte). La notte, quindi, funge, oltre che da sfondo, quasi da cornice per un componimento che sembra un quadro (Breslin 1977, 260) o, comunque, un’opera d’arte. Infatti, Marling sostiene che il poeta opera come se maneggiasse una macchina da presa cinematografica, che «first focuses and then dissolves» (Marling 1982, 174), mentre, rifacendosi ad un’altra forma artistica, Townley ritiene che «[t]he immediacy of the flashed image seen against a ‘dark’ ‘rumbling’ background is reminiscent of many photographs of Stieglitz’s» (Townley 1975, 124). Secondo North, infine, «‘The Great Figure’ is not a photograph but an abstract painting» (North 1988, 326).
Venendo, ora, al dipinto di Demuth, I Saw the Figure 5 in Gold [fig. 1], si tratta di una èkphrasis, per così dire, al contrario.

Figure 1 Charles Demuth, I Saw the Figure 5 in Gold. 1928. Oil, paint, graphite, ink, and gold leaf on paperboard, 90.2 × 76.2 cm. Alfred Stieglitz Collection. Metropolitan Museum, New York
Non abbiamo a che fare, infatti, con un’opera d’arte visiva che ha ispirato la scrittura, ma con un’opera d’arte visiva che ha tratto ispirazione dalla scrittura. Nel 1928 Charles Demuth rese omaggio all’amico, dedicandogli un quadro (ad olio su cartone) che chiamò un Poster-portrait.17 Il titolo riprende i versi 3 e 4 della poesia. L’omaggio del pittore non avviene, però, attraverso la riproduzione delle fattezze fisiche del poeta, ma attraverso l’interpretazione di questa sua esemplare poesia.
17 Commissionatigli da Alfred Stieglitz, Demuth dedicò almeno otto Poster-portraits ad altrettanti amici artisti: da Georgia O’Keefe a John Marin, da Marsden Hartley a Gertrude Stein, tra gli altri. Questo quadro si trova al Metropolitan Museum di New York. Le sue misure sono: 90,2 × 76,2 cm.
Perché non ci siano dubbi circa l’identità (per interposta opera) del soggetto – dopo tutto, si tratta di un ‘ritratto’ – sulla tela compaiono: in alto a sinistra, con le lettere un poco spuntate, «Bill» (il nomignolo con cui il poeta veniva chiamato famigliarmente da parenti e amici. In questa parola, però, c’è anche il possibile riferimento al «billboard», su cui un «poster» può essere affisso (Dobrzynski 2010; Schwarz 2015, 27);18 leggermente più sotto e spostato un poco a destra, «Carlos» (anche se la s finale è coperta); e, in fondo al centro, le iniziali maiuscole del poeta: «W.C.W.» Forse, in segno di umiltà, ma anche di solidarietà (sono allo stesso livello), in fondo a sinistra, il pittore si firma con le sue iniziali maiuscole: «C.D.».19 A conferma della loro reciproca sintonia, a metà dell’opera, di sbieco, vicino al margine di destra appare anche: «Art Co.»: questa sigla si riferisce ai due artisti che, come abbiamo asserito, oltre che «cemented» per la vita, furono anche artisticamente spesso accomunati dall’interesse per le ‘cose’ del loro paese. Nel quadro, quindi, i nomi di battesimo del soggetto (indiretto) del quadro appaiono frammentati e, nel caso del riferimento alle identità dei due amici, queste sono ridotte alle loro iniziali, mentre il loro sodalizio viene liquidato con una sigla, quasi si trattasse di un’impresa commerciale. Queste spezzettature possono significare che le loro identità erano già molto note e non necessitavano di ulteriore specificazione o che, invece, non lo erano abbastanza da meritare un pubblico riconoscimento a tutto tondo. Tali abbreviazioni (al centro del quadro c’è anche quella della parola numero in N., con l’occhiello) possono anche alludere alla rapidità brusca e sbrigativa della comunicazione nel mondo moderno. Sono tutte scelte linguistiche che, mentre potrebbero indicare la volontà del pittore – che si fa scrittore – di imitare la brevità della poesia e delle sue parole, ripropongono la velocità che la poesia mirabilmente presenta.
18 Ma «bill» è anche la carta moneta e, quindi, c’è qui anche un possibile riferimento al denaro e al commercio, così prominenti nella civiltà statunitense.
19 Incidentalmente, quest’opera di Demuth ispirò alcuni grandi pittori: dall’artista del New Dada Jasper Johns (1930) (The Large Black Five) all’artista della Pop Art Robert Indiana (1928-2018), che lo ha richiamato in quattro opere (North 1988, 342; Lavazzi 2009, 184-5).
Secondo Tashjian, il quadro intende non solo rifarsi alla poesia, ma suggerire anche il poeta nelle sue priorità di quegli anni e, quindi, rivela
Williams’ intense desire to make ‘contact’, to capture experience, to achieve absolute clarity of perception in his writing. Hence the billboard effect of the number five, repeated twice [sic] for emphasis, and the suggestion of speed, all of which, along with the modulations of gold, the bright fire-engine reds, and the aggressive recession and projection of forms, visually dramatize Williams’ sense of the artist’s relationship to the life around him. (Tashjian 1975, 211-12)
Poiché con la pittura non si può rendere il suono, nel dipinto il suono è sostituito dal movimento a cannocchiale – a significare che il camion si avvicina e poi si allontana – del 5, ripetuto fino a quattro volte.20 Come scrive Dijkstra, il 5 «strains and pulls, receding and projecting itself again onto the canvas, its original movement in time transformed into visual tensions» (Dijkstra 1969, 78). Da notare come, nel dipinto, la forma panciuta di questo numero sia richiamata, accompagnata, qua e là, dalle forme circolari delle luci così da metterla ancora più in rilievo. Da notare, inoltre, che il numero cinque più interno è costituito da una lamina d’oro: è il più piccolo, ma è il più luccicante (Breslin 1977, 261). In questo modo, il pittore intende suggerire che il numero può essere visto sia quando il camion è ancora lontano, sia quando è già lontano. È ovvio che, concepito come l’unico elemento portante del quadro (gli altri, appena visibili, sono marginali), il numero diventa la sineddoche del camion (come, del resto, denuncia il titolo). Sullo sfondo, appena percettibili, i grattacieli della città si intravvedono nella notte e le molteplici linee oblique che attraversano il quadro sono riferibili alla pioggia che cade. Il numero e la sua forma annullano, dunque, quasi tutto il resto. Come scrive Halter, il numero «becomes one of the new heraldic signs that are part of the specific beauty of the modern age» (Halter 1991, 98). Non simbolo gentilizio, ma solo quantitativo, il numero qui diventa l’emblema della società industriale e commerciale di quel mondo. Il titolo che Demuth dà al quadro indica chiaramente la ragione per cui egli elesse Williams a suo soggetto: giudicò questa poesia un capolavoro tramite il quale immortalare l’autore.
20 La quarta forma del 5 (non visibile nella riproduzione qui sopra) è la più esterna e ha contorni incompleti.
Da varie immagini di carri dei pompieri a New York negli anni Venti, risulta che, nella maggioranza dei casi, il loro numero, lungi dall’apparire sul fronte, in alto, del camion, generalmente si trovava o sul parafango davanti, e quindi in basso, o, lateralmente, sulla portiera del veicolo. In ogni caso, non sembrerebbe essere stata la prima o l’ultima cosa che, all’avvicinarsi o allontanarsi di un camion dei pompieri, un passante poteva vedere. Questi, innanzitutto lo sentiva e, poi, lo vedeva con la sua numerazione, ma, probabilmente, solo nel momento in cui il camion gli passava accanto. In effetti, nella Autobiography Williams aveva specificato che, sentendo il camion arrivare: «I turned just in time to see a golden figure 5 on a red background flash by». Da qui, sia il lampo della visione, sia l’insistenza sul rumore, che, da lontano, annuncia l’arrivo del veicolo. Un rumore che la velocità del movimento rende più intenso (il richiamo indiretto è ancora al plurivalente «tense») quando il camion si avvicina. Il «flash» (il termine usato nell’Autobiography) non è differente da quello che, a volte, sorprende, illumina, lo spettatore, di fronte a un’opera d’arte, così da fissarsi per sempre nella sua mente e nel suo inconscio: come in questo caso, in cui il pittore sintetizza nel mirabile, suggestivo, numero 5 tutta la creatività (visiva e poetica) di un momento autobiografico di capitale importanza.
3 La traduzione italiana di Vittorio Sereni
Mostriamo ora quanto, a dispetto della sua conclamata ‘semplicità’, sia difficile tradurre in italiano Williams. Un poeta di vaglia, Vittorio Sereni, ha tradotto questa poesia così:
La grande cifra
Tra pioggia e luci
vidi la cifra 5
in oro su una rossa
autopompa
tesa
ignorata
in corsa
verso clangori
di gong
sirene lamentose
e ruote in rombo
traverso la buia città. (Williams 1961, 70)
Innanzitutto, nel titolo e al verso 2, traducendo «figure» con «cifra» si perdono le idee di forma e di corporeità, insite nella parola «figure» e, quindi, anche l’iconica ‘fisicità’ del numero arabo, di questo autentico ‘protagonista’, che viene, invece, ridotto a mero segno grafico. Procedendo nell’analisi, questa traduzione presenta 12 versi, e non 13, il che ci pare frutto di una decisione del tutto (irrispettosamente?) arbitraria. La riduzione è dovuta al fatto che, nella traduzione, scompaiono dall’originale, sia il verso 2, assorbito dal verso 1, sia il verso 5, assorbito dal verso 3, mentre all’originario verso 10 la traduzione accorda due versi: l’8 e il 9. Così facendo, si perdono, a nostro avviso, nel primo caso, la distinzione e il necessario stacco semantico e ritmico tra natura (un riferimento che, come abbiamo osservato, il poeta introduce di proposito, visto che non lo deduce interamente dall’esperienza vissuta) e artificialità, e, nel secondo caso, l’importanza che l’originario verso 5 dà al colore del camion (come l’originario verso 4 lo dà all’oro della «figure»). In questa traduzione i due colori sono assemblati, invece di essere distinti secondo la loro individuale specificità (e simbologia).21 Al contrario, nel terzo caso, vengono assegnati due versi ai «clangori/di gong» con l’effetto, da un lato, di mettere in rilievo l’esoticità dello strumento (in un contesto niente affatto orientaleggiante!) e, dall’altro, di sminuire la qualità del suono, che in inglese, con l’allitterazione enfatizzata dal fatto di trovarsi in un solo verso, viene, invece, rimarcata.22 Inutile soffermarsi sul ricercato «clangori», che non potrebbe essere un vocabolo più estraneo al progetto poetico e linguistico williamsiano.
21 Non sembra che Williams fosse particolarmente interessato ai simboli, ma, secondo MacGowan e North, lo era molto l’amico Hartley e, quindi, forse, anche Williams li teneva in considerazione. (MacGowan 1981, 302-5; North 1988, 332-7).
22 Il suono del gong è composto da un largo spettro di frequenze, che creano varie dinamiche e vari timbri.
Inoltre, poiché in italiano occorre scegliere a chi/cosa attribuire gli aggettivi, che, in inglese, non hanno indicazioni di genere e di numero, Sereni attribuisce sia «tense», sia «unheeded», due aggettivi cruciali, ‘solo’ alla «autopompa». In inglese, invece, le due forme aggettivali possono riferirsi sia al numero 5, sia al camion. A nostro avviso, poiché il numero si trova ‘sopra’ al camion, «tense» e «unheeded» – l’uno dopo l’altro (vv. 8 e 9), quasi fossero tenuti tra due virgole o tra due parentesi, staccati da ciò che li precede e li segue, in due successivi versi singoli, con due successive pause – vanno intesi come riferiti ad entrambi.
Problematico è il verso 10 dell’originale, in quanto, dopo «unheeded», il «to» sembrerebbe un anacoluto. Sereni lo fa giustamente dipendere dal precedente «moving» (v. 7). A nostro avviso, però, il camion non è «in corsa/ verso clangori» (vv. 7 e 8), ma crea fragori per il fatto stesso di far correre le ruote e di procedere a sirene spiegate. Quindi, «moving […] to» più che un movimento fisico indica un ‘provocare’ il frastuono, nel momento in cui viene ‘attivato’ il dispositivo acustico.23 In altre parole, il camion, in movimento e con il pulsante delle «sirene» in azione, provoca fragori. Dal canto loro, «siren howls» potrebbe tradursi con «sirene ululanti», certamente non «lamentose»! La scelta di Sereni potrebbe, però, essere dovuta al fatto che c’è una certa, se pur lontana, assonanza tra il sostantivo inglese («howls») e l’aggettivo italiano. Infine, al penultimo verso, «in rombo» (v. 11) – per l’originario «rumbling» (v. 12) – non ci pare del tutto felice. Nonostante l’allitterazione con «ruote» e con il participio presente inglese, ci sembra che, in un contesto dominato da ‘forme’, questa soluzione possa equivocamente rimandare (sebbene in modo assurdo) anche alla corrispondente figura geometrica. In questa traduzione, peraltro, il suono roboante delle «r» risuona ancora di più che nell’originale: ben quattordici volte. In sintesi, ci sembra che questa traduzione sia molto lontana dal trasmettere non solo il significato, ma anche la precisione linguistica sottesi alla poetica di Williams.
23 Rimandiamo al significato nr. 10 e al significato nr. 21 del verbo «to move» nell’OED.
4 Conclusioni
Possiamo, allora, affermare che la ‘semplicità’ della lingua di Williams non solo è il frutto dell’assidua e rigorosa ricerca di ciò che si potrebbe definire un’intensa e vibrante essenzialità, ma che questa ‘semplicità’ scaturisce dalla volontà di mostrare quanto parole e simboli, lettere e numeri, rappresentazioni e segni siano da considerarsi non solo nel loro aspetto referenziale, ma anche in quello visivo: come corpi, cioè, che impressi sulla pagina rivelano quanto poliedrica ed affascinante sia la realtà.
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