Un’ambiguità in limine: faveo in due incipit di Tibullo e Properzio
Abstract The article aims to analyse an intertextual link in the ambiguous use of faveo between Tib. 2.1.1 and Prop. 4.6.1, both elegies classifiable as ‘mimetic’ hymns and both ‘thresholds’ of the respective two books of elegies. It is intended to show how Tibullus, inspiring Propertius in this, understood the implicit resources of a verb like faveo in the context of ‘mimetic’ fiction, with which the officiating poet can simultaneously address the imaginary participants of the religious ceremony and the actual readers of the poem. The aim is to show how this Tibullian use of faveo, suggested by the poeta-sacerdos mimesis, not only instilled in Propertius, also in the role of officiant, the need to enfranchise a sequence such as favete linguis from its formular rigidity, but illustrated the expressive potential of the verb in the incipit position of an elegy as a source of metapoetic reflection, being able to subtly express an ambivalence suitable for defining an angle of privileged sharing between poet and readers, carved out at crucial points in Tibullus’ second book and Propertius’ fourth in which precisely faveo can make itself the bearer of a message transcended from the literal plane.
Keywords Faveo. Tibullus. Propertius. Mimetic hymn. Metapoetic. Thresholds.
In attesa che sia messa definitivamente in discussione la vulgata difficoltà critica di stabilire un dialogo certo fra Tibullo e Properzio,1 in questo contributo ci si propone di analizzare un riscontro intertestuale fra Tib. 2.1.1 e Prop. 4.6.1 che non ci pare sufficientemente valorizzato né dagli interpreti tibulliani né da quelli properziani.
1 Si citano, a titolo d’esempio, alcuni saggi che evidenziano la problematicità della questione: La Penna 1950, che definisce le relazioni fra Tibullo e Properzio come «una delle croci della filologia latina» (p. 223); D’Elia 1953; Cairns 1986; Lyne 1998; von Albrecht 2005, 249: «il nostro tema non è facile e non pochi lo evitano»; Perrelli 2018; 2021.
Nella prima elegia del secondo libro Tibullo presiede a una cerimonia lustrale, generalmente identificata con gli Ambarvalia,2 che il poeta si trova contemporaneamente a rappresentare e a celebrare, secondo le modalità proprie dell’inno ‘mimetico’,3 modello compositivo ispirato principalmente a Call. Ap. (ma anche Lav.Pall. e Cer.), in cui «l’occasione viene inglobata, attraverso la finzione letteraria, all’interno del testo poetico»4 e «la cerimonia religiosa appare reale mediante l’illusione creata dalla narrazione».5
2 Per una panoramica del dibattito critico intorno all’identificazione del rito rappresentato in Tib. 2.1, si vedano fra gli altri Ball 1983, 162 nota 31; Harmon 1986, 1943‑55; Feeney 1999, 171‑4; le introduzioni all’elegia nei commenti di Murgatroyd 1994; Maltby 2002; da ultimo, D’Amanti 2023 (il quale non esclude che possa trattarsi dei Brumalia).
3 La Bua 1999, 79‑81 e nota 94. Per Tib. 2.1 come composizione mimetica vedi Albert 1988, 171‑6; La Bua 1999, 285‑7; Cairns 1979, 121‑34 (cf. anche Cairns 1983, 101) fornisce un’illuminante disamina dell’ellenismo compositivo tibulliano in quest’elegia, sebbene la interpreti come inno corale e ispirato a una lettura a sua volta corale di Call. Ap. (per una diversa analisi di Call. Ap., con il poeta quale «master of ceremonies», si veda Williams 1968, 211 s.): tuttavia, il paradigma compositivo che delinea pare richiedere la stessa quota di mimesi, che si sia in presenza di un coro o di un singolo declamatore.
4 Pretagostini 1991, 253 s.
5 La Bua 1999, 80.
Movenze di questa peculiare forma innica, con descrizione in presa diretta del rituale, «ed influssi del modello callimacheo» si ritrovano anche in Prop. 4.6,6 con il poeta che veste i panni dell’officiante assumendo il duplice ruolo di descrittore e guida della cerimonia: è il vates stesso che compie il sacrificio, «cioè in termini callimachei, che compone il nostro inno».7
6 La Bua 1999, 287 e nota 549. Per una lettura ‘mimetica’ dell’elegia vedi Albert 1988, 199‑201.
7 Cairns 1983, 102, che però legge il componimento come inno mitico destinato a un coro (101‑8); di questa sia pur convincente lettura dubita P. Fedeli in Fedeli, Dimundo, Ciccarelli 2015, 807 chiedendosi, «in particolare, come possa giustificarsi in un carme corale la sezione conclusiva, che rinvia all’ambiente simposiaco»: queste stesse obiezioni possono essere applicate, da una diversa angolatura, all’interpretazione ‘corale’ di Tib. 2.1 fornita da Cairns 1979, 126‑34. Nondimeno, se si prescinde dall’individuazione o meno di un coro, in entrambi i casi si può fruire dell’acume analitico di Cairns nel riconoscere e definire l’eredità callimachea di Properzio e Tibullo, due poeti ellenistici a Roma.
Così come in Tib. 2.1 il primo comando ai presenti, contenuto nel primo emistichio del v. 1, è dato attraverso il verbo faveo, Quisquis adest, faveat (faveat è lezione recenziore quasi universalmente accettata dai moderni editori tibulliani contro il valeat della tradizione),8 in Prop. 4.6 l’iniziale ingiunzione al silenzio, posta nella seconda metà del verso, è espressa dallo stesso verbo in un costrutto perifrastico, sint ora faventia sacris.9
8 Accolgono faveat p.es. Postgate 1915 e Lenz, Galinsky 1971; Luck 1998 opta invece per l’ades, faveas proposto da Dousa figlio, non accogliendo il faveat congetturato dallo Scaligero e diffusamente messo a testo da vari editori in luogo del valeat del consensus codicum. Si tornerà infra sui vantaggi di una scelta testuale orientata sulla seconda persona, utilizzata da Breed 2021 per la tesi da lui sostenuta.
9 Non presenta particolari problemi testuali la porzione di verso properziano presa in esame: si rimanda comunque all’apparato critico di Heyworth 2007 a Prop. 4.6, numerata per un refuso di stampa a p. 168 come quinta anziché sesta elegia (l’errore è circoscritto alla prima volta in cui si fornisce l’indicazione numerica: nell’intestazione delle pp. 169‑70 figura regolarmente IV vi).
Benché questo riscontro intertestuale non delinei nulla più che un punto nell’«esile ragnatela»10 dei rapporti fra i due poeti elegiaci, vi si può tuttavia scorgere la sphragis del modello compositivo mimetico seguito e valorizzato da entrambi i poeti e, a questo connessa, la traccia di un obiettivo metapoetico.
10 Perrelli 2021, 34.
Pertanto, proveremo a mostrare come Tibullo, ispirando in questo Properzio, abbia compreso le potenzialità espressive di un verbo come faveo nell’ambito della finzione ‘mimetica’, ponendolo programmaticamente in apertura dell’elegia proemiale del suo secondo libro (Properzio lo porrà a v. 1 dell’elegia centrale del quarto), punto nodale in cui faveo può farsi foriero di un messaggio traslato rispetto al piano letterale.
Se questo fine metapoetico è stato notato relativamente a Prop. 4.6, «in cui la sacralità religiosa si confonderà con i principî di poetica»,11 non si può dire lo stesso per quanto riguarda Tib. 2.1, elegia che non ci pare sia stata sottoposta a una lettura in senso specificamente metapoetico prima di quella tentata di recente da B. Breed,12 lettura cui questa nostra analisi spera di aggiungere un contributo inerente al consapevole uso ambiguo di favere da parte di Tibullo.
11 Fedeli 2022, 329 s.: «il fatto che esecutore del sacrificio non sia un sacerdos, bensì un vates, fa subito capire che si tratterà di un sacrifico metaforico: sarà il poeta stesso, in quanto sacerdote di Apollo e delle Muse, a indossare tanto i panni dell’officiante quanto quelli del vate e a dare una serie di disposizioni, in cui la sacralità religiosa si confonderà con i principî di poetica».
12 Breed 2021.
Prima di esporre i risultati della nostra analisi, è opportuno illustrare brevemente la semantica di faveo e la sua matrice sacrale. Per esortare al silenzio – requisito indispensabile a ogni sacrificio e comune alle culture più distanti nel tempo e nello spazio –,13 il lessico religioso latino importa con favere, solitamente accompagnato da ablativi strumentali come linguis/ore,14 l’antica formula cultuale espressa in greco dalle voci del verbo εὐφημεῖν, in cui il significato letterale di ‘fare buoni discorsi’ si rovescia in quello di ‘astenersi dal pronunciare parole di cattivo auspicio’ per giungere dunque, come stadio ultimo, a ‘tacere/stare in religioso silenzio’ (già in Hom. Il. 9.171, poi p. es. in Call. Ap. 17 εὐφημεῖτ᾽ ἀίοντες ἐπ᾽ Ἀπόλλωνος ἀοιδῇ, con Williams 1978 ad loc.; Eur. Bacch. 70; Aristoph. Thesm. 39). Pur restando negli ablativi traccia del significato originario greco di ‘fare buoni discorsi/auspici’, l’espressione di fatto si svuota del suo valore attivo, perché il modo più sicuro di evitare cattivi presagi in contesti rituali era quello di non proferire parola alcuna, restando passivamente in silenzio.15
13 Hubert, Mauss 1977, 79‑80; Scarpi 1983, 36: «[il silenzio] è il canale privilegiato con cui gli dèi trasmettono la loro volontà ed è con il silenzio che nel corso del rito l’uomo può entrare in contatto con essi» (entrambi citati da Fedeli in Fedeli, Dimundo, Ciccarelli 2015, 814).
14 ThlL 6/1.377.1‑14.
15 Nisbet, Rudd 2004 ad Hor. carm. 3.1.2; Coutelle 2015 ad Prop. 4.6.1; vedi Pease 1920 e Wardle 2006 ad Cic. div. 1.102 rebus […] divinis, quae publice fierent ut faverent linguis imperabatur (cf. anche 2.83); Sen. dial. 7.26.7 favete linguis. Hoc verbum non, ut plerique existimant, a favore trahitur, sed imperat silentium, ut rite peragi possit sacrum nulla voce mala obstrepente; Plin. nat. 28.11 videmus […] alium vero praeponi qui favere linguis iubeat.
Tuttavia, già Festo testimonia l’oscillazione del significato di favere quale derivazione latina del greco εὐφημεῖν, contrapponendo la propria interpretazione ‘positiva’ del verbo all’uso che ne facevano i poeti antichi: Favere enim est bona fari; at veteres poetae pro ‘silere’ usi sunt ‘favere’;16 Servio ad Verg. Aen. 5.71, sebbene rimarchi la necessità della taciturnitas durante i sacrifici, accoglie la formula nella sua duplice accezione: in sacris taciturnitas necessaria est, quod etiam praeco magistratu sacrificante dicebat ‘favete linguis favete vocibus’, hoc est bona omina habete aut tacete.
16 Paul. Fest. 78.16 L.
Memore del significato attribuito a faveo dai veteres poetae, in apertura d’elegia Tibullo esorta al silenzio i partecipanti alla lustratio adoperando il verbo nella sua forma sine additamentis,17 senza cioè quegli ablativi – di lingua, vox et similia – che vi si accompagnano nella formula di origine religiosa fissatasi nella lingua poetica latina.18 Sulla scorta tibulliana, anche Properzio in un componimento ‘mimetico’ adotta al posto del collaudato favete linguis una «complessa struttura participiale (sint ora faventia), in cui la forma perifrastica sint faventia sostituisce il normale faveant»19 e gli ora fanno da soggetto: sforzandosi come Tibullo di superare l’ovvietà della sequenza tradizionale, anch’egli «raggiunge lo scopo di enfatizzare la richiesta di attenta e devota partecipazione dei presenti».20
17 La sola attestazione pre-tibulliana di favere nel senso di silere, e all’infuori dell’ambito rituale, sembrerebbe Ter. Andr. 24 favete, adeste aequo animo et rem cognoscite (la tangenza faveo-adsum potrebbe aver agito su Tib. 2.1.1), a patto che si accolga questa interpretazione fornita da Don. ad loc. invece di quella proposta da Hofmann in ThlL 6/1.373.47‑8 (cf. Cioffi 2021 ad Ter. Andr. 24).
18 P. es. Naev. com. 111 Ribb.; Hor. carm. 3.1.2 (con Nisbet, Rudd 2004 ad loc.); Tib. 2.2.2 (vedi infra: in Tib. 2.1 ne sfrutta l’ambivalenza; in Tib. 2.2.2 non ne ha bisogno); Ov. am. 3.2.43, 3.13.29, trist. 5.5.5, fast. 1.71 (con Frazer 1929 e Green 2004 ad loc.), 2.654, Ibis 98; Iuv. 12.83.
19 Fedeli, Dimundo, Ciccarelli 2015, 813.
20 Fedeli, Dimundo, Ciccarelli 2015, 814. Cf. Coutelle 2015, 684 che definisce l’espressione participiale «insolite et emphatique».
In altra sede,21 la variazione stilistica sul lessico rituale attuata da Tibullo (accentuata dall’uso del congiuntivo in luogo dell’imperativo della sequenza canonica) era stata da me interpretata come un esito innovativo indotto dal modello compositivo ‘mimetico’: per effetto della mimesi con l’officiante, il poeta ha dovuto cioè accordare il proprio linguaggio a quello del sacerdos producendosi in uno sforzo d’assimilazione verbale costantemente teso a liricizzare il lessico rituale (e il lessico letterario d’ambito rituale) e a rinnovarne alcune formule sclerotizzate, per inserirle adeguatamente nel tessuto poetico senza intaccarne la matrice, per superare quel linguaggio senza tradirlo.
21 Pandolfo 2023.
Sia attendibile o meno la lettura appena sunteggiata, fondata sull’idea che il poeta abbia inteso emancipare l’uso di faveo dalla sua fissità di formula per sublimare liricamente il linguaggio del sacerdos, in questo articolo ci si propone di fornire un fattore ulteriore che integri la motivazione ‘mimetica’ ed estenda il raggio dell’innovativo risultato poetico di Tib. 2.1.1 alla luce del paragone con Prop. 4.6.1. L’obiettivo è mostrare come l’uso tibulliano di faveo determinato dalla mimesi poeta-sacerdos non solo abbia instillato in Properzio, anch’egli nel ruolo di officiante, l’esigenza di affrancare una sequenza come favete linguis dalla sua rigidità formulare, ma abbia illustrato le potenzialità espressive del verbo in posizione incipitaria d’elegia come fomite di riflessione metapoetica,22 potendo esprimere sottilmente un’ambivalenza ritagliata nel modello compositivo adottato e adatta a definire un angolo di condivisione fra il poeta e i suoi lettori.23
22 Cairns 1983 si è soffermato sull’affinità eidetica delle due elegie, ma non ha ricavato particolari spunti dal riscontro intertestuale oggetto del nostro contributo.
23 Dietro ai partecipanti immaginari c’è il pubblico dei lettori reali: se ai primi si chiede di tacere, ai secondi si chiede di offrire favorevoli auspici.
I maggiori commentatori properziani evidenziano l’ambivalenza dell’espressione sint ora faventia sacris: É. Coutelle sottolinea la duplice accezione racchiusa nel verbo favere, quella ‘negativa’ di ‘tacere’ e quella ‘positiva’ di ‘pronunciare favorevoli auspici’, aggiungendo che quest’ultima si attaglia maggiormente all’attività del poeta;24 P. Fedeli suggerisce finemente che la formula d’invito «assume un senso diverso a seconda che la si consideri dal punto di vista del sacerdos o da quello del vates: dal punto di vista del sacerdos si tratta di un invito al silenzio rivolto ai presenti, da quello del vates di un invito a offrire favorevoli auspici».25
24 Coutelle 2015, 684.
25 Fedeli 2022, 330 (più diffusamente in Fedeli, Dimundo, Ciccarelli 2015, 813 s.).
Ma né Fedeli26 né Coutelle27 decidono di diffondersi sul precedente di Tib. 2.1.1: il primo non si sofferma sul rapporto intertestuale fra i due luoghi riguardo all’uso di faveo (forse perché comprensibilmente persuaso che l’omissione tibulliana di os ne allenterebbe il legame o perché più cauto rispetto alla lezione faveat che, sia pur accettata dagli editori di Tibullo, rimane una proposta dello Scaligero contro il tràdito valeat); il secondo, pur citando Tib. 2.1.1 accanto a molti altri loci paralleli, non valorizza il riferimento, che resta confinato «nel cassetto dell’intertestualità erudita e ‘giustappositiva’».28
26 Nemmeno in Fedeli, Dimundo, Ciccarelli 2015.
27 Né tanto meno Hutchinson 2006, 156.
28 Perrelli 2021, 35.
In questo contributo, quindi, non ci si può limitare a sistemare con più ordine quel cassetto solo segnalando o marcando una mera dipendenza properziana da Tib. 2.1.1, ma occorre estrarne quegli elementi che mostrino come Properzio paia essersi rifatto a Tibullo intuendo le risorse espressive di faveo per il poeta che debba identificarsi mimeticamente con l’officiante. S’intende pertanto evidenziare quanto Properzio si sia a sua volta avvalso dell’ambivalenza semantica che quel verbo assume in bocca a un vates nel ruolo di sacerdos, il quale, per effetto della finzione letteraria caratteristica dell’inno ‘mimetico’,29 finisce per rivolgersi congiuntamente ai lettori reali dell’elegia e ai partecipanti immaginari del rito sacrificale.
29 Cf. La Bua 1999, 79 s.; in generale, sull’aspetto mimetico di certe elegie di Properzio e Tibullo, si veda Albert 1988, 167 ss.
Secondo le modalità dell’inno mimetico che accomunano le sezioni iniziali di queste elegie di Tibullo e Properzio, i lettori apprendono in maniera contestuale ai devoti, rispettivamente, i gesti cultuali propedeutici alla lustratio in Tib. 2.1 e quelli richiesti dal sacrificio di Prop. 4.6, ascoltando sincronicamente da un’unica voce ciò che i due autori descrivono quali poetae e prescrivono quali sacerdotes: i lettori possono ricostruire lo svolgimento descrittivo dei due riti solo recependo indirettamente, di volta in volta, le prescrizioni impartite ai presenti dal poeta in funzione di officiante.
Se si aderisce integralmente alla finzione ‘mimetica’ configurando il punto di vista del sacerdote, non si può non intenderne la prima esortazione, espressa in entrambi i casi da faveo, come inequivocabile invito al silenzio rituale rivolto a un tempo ai presenti e ai lettori che a quei presenti sono assimilati. Se invece si resta all’infuori del fittizio recinto mimetico e lo si osserva dall’esterno, il discorso slitta immediatamente su un piano metaforico che consente di distinguere la voce del poeta da quella dell’officiante e disambiguare il significato di faveo a seconda che sia pronunciato dall’uno o dall’altro: in bocca al sacerdote, comunica l’obbligo di tacere ai partecipanti alla cerimonia; rivolto dal poeta ai suoi lettori, vale piuttosto come «un’esortazione a offrire favorevoli auspici».30
30 Fedeli, Dimundo, Ciccarelli 2015, 815.
Una simile lettura ambivalente di faveo viene proposta – come anticipato – da Fedeli nel commento a Prop. 4.6.1 ma senza istituire connessioni con il potenziale precedente rappresentato da Tib. 2.1.1; dal canto loro i commentatori tibulliani non si soffermano sull’ambiguità della formula esortativa affidata a faveat come riflesso dell’ambiguità poeta-sacerdos, né tanto meno enucleano quell’uso del verbo da parte di Tibullo come diretto riferimento per Properzio.31
31 Cf. Smith 1913, 393 s.; Putnam 1973, 153, che interpreta faveat nel senso di «let him be well disposed»; Murgatroyd 1994, 22 e 73, che ad Tib. 2.2.2 menziona il duplice significato di faveo senza valutarne l’applicabilità interpretativa a Tib. 2.1.1; Maltby 2002, 360 s.; D’Amanti 2023, 202.
Non solo qui consideriamo il Quisquis adest, faveat di Tib. 2.1.1 suscettibile della medesima interpretazione ‘ambigua’ fornita da Fedeli a proposito di Prop. 4.6.1 sint ora faventia sacris, ma ci spingiamo a ritenere il Tibullo poeta sacerdos dell’elegia 2.1, che esorta a favere lettori reali e convenuti rituali, come diretta fonte d’ambiguità per il Properzio vates dell’elegia 4.6,32 intento a sacrificare di fronte a un’immaginata moltitudine di fedeli, cui ingiunge di restare in silenzio, e che coincide idealmente col pubblico dei suoi lettori, da cui si aspetta parole benevole.
32 Sul concetto di vates nella poesia latina si veda almeno Newman 1967, 99‑206, in partic. 178 ss. per Tibullo e 175 ss. per Prop. 4.6 (su cui si veda anche Luck 1959, 124‑40, pagine giudicate troppo generiche da Newman).
Nel seguire il medesimo modello compositivo ellenistico, è verisimile che Properzio abbia tratto ispirazione da Tibullo leggendo nel suo invito a favere nell’esordio di 2.1 non solo l’invito a tacere indirizzato ai virtuali devoti ma anche – disunendo il profilo del poeta da quello del sacerdos – un velato appello ai suoi lettori a offrire benevoli auspici in apertura del suo secondo libro di elegie. Properzio sembra cogliere appieno l’ambivalenza che Tibullo mantiene volutamente intatta in quel verbo; avverte quell’ambiguità come necessaria per un componimento programmatico come 4.6 e comprende che, rafforzandola, può sviluppare con coerenza dall’artificio della mimesi un discorso metapoetico che sveli appunto i principî di poetica celati dietro le istruzioni sacrificali e mescolati agli ordini del sacerdos gli auspici del vates.
Se si rompe per un attimo la finzione mimetica, per effetto della quale dettato del poeta e attenzione del lettore collimano al contempo con dettato dell’officiante e attenzione del fedele, ci si rende conto delle potenzialità espressive che Tibullo scopre in faveo all’interno di un simile modello compositivo. Mantenere l’ambivalenza del verbo permette a Tibullo di divaricare, su un diverso livello di lettura, ciò che il modello compositivo fa combaciare, ovvero il punto di vista del poeta e quello dell’officiante. Attraverso il duplice significato di faveo, Tibullo può smagliare la rete mimetica suggerendo al lettore un significato diverso rispetto a quello che, quale fedele, è tenuto ad attuare nell’ambito rituale, un significato ulteriore che il lettore dell’elegia può recepire solo se smette i panni del partecipante alla cerimonia e, fuori di mimesi, si considera il destinatario unico di un messaggio consegnato dal solo poeta, scissosi momentaneamente dal ruolo di sacerdote.
Se volessimo avvalerci delle classificazioni fornite da W. Empson in Sette tipi di ambiguità, potremmo provare a inquadrare come ambiguità di terzo tipo il sapiente uso che di faveo fa Tibullo in 2.1.1, e che a nostro avviso sarà colto e riprodotto da Properzio in 4.6.1. Con una leggera forzatura a scopo espositivo, ci pare possibile adeguare al caso di Tibullo ciò che afferma Empson:33
33 Empson 1965, 175 (corsivi nell’originale).
L’ambiguità di terzo tipo, sul piano verbale, si ha quando due idee, connesse soltanto dal fatto di essere entrambe significative nel contesto generale, possono essere comunicate simultaneamente da un’unica parola. Ciò accade spesso perché una stessa parola ha un’accezione corrente e un diverso significato etimologico.
Sondate le risorse implicite nel modello compositivo adottato, Tibullo riflette la duplicità del ruolo di poeta e officiante nella duplicità di significato condensata nell’esortazione espressa da faveat; ne sfrutta la carica ambivalente per delineare, dietro la coltre ‘mimetica’, un secondo piano del discorso da cui il poeta si rivolge unicamente ai suoi lettori, ma con un significato diverso rispetto a quello destinato agli adoranti. Questa ricercata ambivalenza sembra interamente acquisita da Properzio, che la riproduce nell’ambiguità della formula d’invito di 4.6.1, affidata al prezioso costrutto participiale sint ora faventia,34 il cui senso varia a seconda che lo s’intenda dal punto di vista del sacerdos o da quello del vates.
34 Cf. Coutelle 2015, 684; Fedeli, Dimundo, Ciccarelli 2015, 813 ss.
Servendoci ancora dalle parole di Empson, potremmo dire che l’ambiguità verbale suggerita da Tibullo e valorizzata da Properzio si fonda sul fatto che il fruitore dell’opera non può ignorare i due distinti significati della singola parola, che consente così – in maniera coerente alla tecnica mimetica – di comunicare «simultaneamente informazioni non connesse fra loro, due storie diverse»: nel nostro caso una storia è quella assegnata al modello compositivo ellenistico comune ai due autori, che contiene le informazioni relative allo svolgimento delle cerimonie; l’altra è quella spostata su un piano esterno alla mimesi e offerta alla sagacia del lettore, il quale è tenuto a comprendere in senso traslato la riflessione di poetica dietro quelle indicazioni rituali.
Due idee, dunque, vengono comunicate simultaneamente da unico verbo, ma occorre perfezionare questo assunto estrinsecandone meglio gli ingredienti di complessità. All’interno della finzione mimetica, poiché dispiegato da un poeta nel ruolo di sacerdos, lo spettro semantico di faveo deve ridursi a quell’unico significato che armonizzi nello scenario sacrale la voce del poeta a quella dell’officiante, facendone consuonare il dettato nella prescrizione del silenzio rituale e, di conseguenza, annullando la distinzione fra devoti e lettori, con questi ultimi immessi immediatamente dentro la cerimonia come partecipanti invisibili equiparati agli altri adoranti. D’altro canto il lettore, osservando dall’esterno la finzione, in una sorta di sdoppiamento percettivo, considera sé stesso separato dalla folla dei fedeli e il poeta parimenti disgiunto da mansioni cultuali, recependo pertanto in tutta la sua ambivalenza semantica quanto espresso da faveo, non solo cioè come ingiunzione al silenzio proveniente dalla voce del sacerdote ma anche come una richiesta di favorevoli auspici sottilmente racchiusa nel ‘positivo’ valore etimologico di favere, che il poeta – unicamente in questo ruolo – esorta i lettori a raccogliere.
Potremmo chiosare questa nostra disamina sulla carica ambivalente serbata da Tibullo nel suo impiego incipitario di faveo con le stesse parole con cui Empson commenta il passo miltoniano assunto come esempio di ambiguità di terzo tipo: «se non fosse stata sfruttata ingegnosamente questa casuale possibilità semantica, sarebbe stato necessario usare due serie di parole».35
35 Empson 1965, 175.
È probabile che in Tib. 2.1.1 Properzio abbia sentito, dietro l’invito a tacere rivolto ai devoti immaginari, un appello rivolto ai lettori in apertura del secondo libro e abbia deciso a sua volta di profittare di questa duplicità per un’elegia programmatica come la 4.6, con cui quale sacerdos si rivolge agli adoranti invitandoli al silenzio per procedere al sacrificio e nel contempo, quale vates, esorta i suoi lettori a offrire auspici favorevoli di fronte a un nuovo tipo di poesia come quello contenuto nel libro quarto in cui «Propertius felt the tug of other conceptions of poetry».36
36 Newman 1967, 175.
Se Tibullo estrae dall’interno del modello mimetico la potenza ambigua di faveo e la riversa all’esterno spostando il discorso su un piano, per così dire, metapoetico, qualcosa di analogo farà su questa scorta Properzio. Egli sembra talmente cosciente della lezione d’ambiguità tibulliana da avvertire, similmente a Tibullo, il bisogno di differenziare sintatticamente l’esordiale formula d’invito dal solito e consolidato favete linguis, per segnalare in quello scarto stilistico un punto d’enfasi ineludibile,37 che esige nello stesso tempo sia il silenzio dei lettori in quanto mimeticamente assimilati ai fedeli, sia il favore di quegli stessi lettori che, svincolati dalla funzione fittizia di fedeli, vengono allusivamente chiamati in causa nel verso d’apertura di due elegie collocate sul limitare dei due libri, in posizione preminente.
37 Senza gli ablativi strumentali l’ambiguità è più marcata e orientata verso il lettore: rinunciando a quegli ablativi caratteristici della formula canonica, Tibullo lascia facilmente aperta la doppia lettura (in Tib. 2.2.2 non sente il bisogno di differenziare e opta per il consolidato lingua… fave; in Tib. 2.1.1 sa di dover sfruttare appieno l’ambiguità intrinseca di faveo).
Entrambe le elegie, infatti, rappresentano ben visibili ‘soglie’ dei rispettivi due libri.38 Prop. 4.6 è da considerarsi a tutti gli effetti – secondo la definizione di G.B. Conte39 – un ‘proemio al mezzo’, cui Properzio affida la dichiarazione programmatica di un nuovo tipo di poesia, rivendicando al distico elegiaco la capacità di cantare non soltanto gli aitia, come preannunciato in Prop. 4.1, o l’amor, come nei tre precedenti libri, «ma anche gli arma e, dunque, un evento bellico di straordinario rilievo qual è stato lo scontro navale di Azio».40 Tib. 2.1, in quanto elegia proemiale del secondo libro di Tibullo, «falls at the line of division that defines the book as its own enclosed space with a beginning and end»,41 costituendo – secondo Breed – un preciso snodo metapoetico nei termini in cui «ritual and poetry are alike as special zones defined by submission to rules, but each with its own rhythms»,42 con i confini degli arva attorno a cui si svolge la lustratio che coincidono idealmente con confini metapoetici, percorrendo i quali Tibullo persegue un preciso obiettivo: «one of the purposes Tibullus pursues by observing boundaries, both in imaginary space and anchored to physical realities that are accessible for readers, is generic self-definition».43 Continua Breed:
38 Il riferimento obbligato è Genette 1989.
39 Conte 1984, 121‑33.
40 Fedeli 2022, 327 (cf. Fedeli, Dimundo, Ciccarelli 2015, 803).
41 Breed 2021, 16.
42 Breed 2021, 17.
43 Breed 2021, 17.
The opening lines of Tibullus’ poem express a version of the idea that the beginning of a second volume is not just a site for authorial reflection and recommitment, but also a moment where readers have a choice whether to continue or not. As the poem begins he speaks directly not only to the fictional crowd assembling for the ceremony, but also to readers contemplating the inauguration of a new book of Tibullan elegy.44
44 Breed 2021, 18.
Si potrebbe aggiungere che il valore metapoetico attribuito da Breed a Tib. 2.1 viene garantito e in qualche modo legittimato proprio dall’uso ambivalente di faveo e dalla sua collocazione in posizione liminare da parte di Tibullo, in un punto nevralgico che attira l’attenzione dei lettori, all’inizio del suo secondo libro di elegie, privilegiato spazio di riflessione e di comunicazione con il pubblico dei lettori.45 La potenza ambigua di faveo congiunge collettivamente in un senso lettori a partecipanti fittizi e insieme isola il lettore quale destinatario singolativo dell’altro significato, limando la chiave di lettura suggerita da Breed:
45 Breed 2021, 17: «The position of Tibullus II 1 as the opening poem of a new book gives added significance to the evocation of varieties of borders. The poem marks Tibullus’ return after his first book of elegies, and in this context questions about continuity and disjunction are to be expected».
in the setting of Tibullus II 1 boundary-drawing functions rhetorically as an appeal to readers, an invitation to imaginatively enter a rural space that, while unreal and abstract, corresponds to the inauguration of Tibullus’ new book of poems. At the outset of the book, which is itself an object that occupies physical space marked off between the limits of the beginning and end of the scroll, distinguishing between who is here and who is absent might equip readers with a sense of inclusion and favor, and motivation for deeper engagement with the ceremonies Tibullus depicts. The speaker’s alignment with Callimachean programmatics via the idea of inclusion and exclusion further flatters Tibullus’ readers.46
46 Breed 2021, 23.
Tibullo intende far acclimatare i suoi lettori, di cui chiede il favore, in una nuova raccolta di poesie mostrando una continuità di temi, ambientazioni e personaggi (fra cui Messalla) rispetto alla precedente e tacendo in sede proemiale la principale differenza rispetto al primo libro, ovvero la presenza di Nemesi al posto di Delia, cambio di protagonista che avrebbe potuto turbare il lettore.47 Per di più, l’individuazione di un sotteso appello ai lettori in Tib. 2.1.1 indurrebbe a preferire al faveat proposto da Scaligero e messo a testo da Postgate e Lenz, Galinsky il minoritario faveas accolto da Luck nella sua edizione sulla base di una congettura di Dousa figlio, che renderebbe più diretta l’allocuzione.48
47 Cf. Breed 2021, 19 nota 8. Ma si veda anche Lee-Stecum 2013, 71 s.
48 Vi crede Breed 2021, 19: «The second-person appeal to those present to observe the proper ritual expectations (faveas) positions readers as a sympathetic group both favorable to the poet and favored by him».
Consapevole della valenza di ‘soglia’ istituita da Tib. 2.1, Properzio decide di aprire con favere un’elegia programmatica posta al centro del suo quarto libro, mutuando da Tibullo quell’utilizzo ambivalente del verbo che assolve simultaneamente la funzione di unificare e sdoppiare i destinatari cui è rivolto. Potremmo dire che Tibullo integra la lezione d’ambiguità nel sistema compositivo callimacheo, facendo chiaro a Properzio che, tramite il significato ‘negativo’ di faveo, il poeta officiante può chiamare in causa lettori e fedeli insieme, mentre, se ne schiude l’accezione ‘positiva’, riesce a rivolgersi al solo pubblico dei lettori. In questo modo, insomma, Tibullo e, dietro sua ispirazione, Properzio richiedono ai destinatari della loro poesia, in punti cruciali delle loro opere, non un generico consenso ma uno specifico favore verso ciascuno dei due nuovi libri di elegie e, dunque, verso nuovi contenuti e forme poetiche che in essi i due autori intendono sviluppare.49
49 Si legge in Fedeli, Dimundo, Ciccarelli 2015, 812 a proposito di Prop. 4.6: «Il poeta, in quanto sacerdote di Apollo e delle Muse, può legittimamente esercitare il ruolo dell’officiante; al tempo stesso, considerata la situazione, è ugualmente legittimo che egli si appropri dell’epiteto di vates, che in un libro di poesia elegiaca programmaticamente non convenzionale suscita fondate attese nei confronti di un carme che intende collocarsi a un livello di superiore dignità».
Valutare poi quanto siano distanti le dichiarazioni programmatiche racchiuse da Tibullo e da Properzio in questi due testi chiave, e seguirne le diverse direzioni, non è il fine di questo contributo, che si limita a esaminare il sistema compositivo che ne ha favorito l’ideazione e soprattutto – supponendo in questo un debito di Properzio verso Tibullo – l’ambiguo fattore linguistico che quell’idea metapoetica ha attivato e fissato in testa alle due elegie. Ci si riserva di dedicare un futuro lavoro ai due distinti mondi elegiaci squadernati da questi componimenti ‘soglia’ del secondo libro di Tibullo e del quarto di Properzio. Per intanto, possiamo congedarci dal presente articolo con l’auspicio che rappresenti una sia pur piccola aggiunta al complesso capitolo del rapporto letterario fra Tibullo e Properzio, mostrando come l’ambivalente tic inventivo del primo, scaturito dall’intelligenza del modello callimacheo, abbia influito sull’ideazione del secondo, che di quelle risorse mimetiche, e dei possibili risvolti metapoetici, si mostra profondamente cosciente, pur indirizzando ad altro fine programmatico quell’ellenismo compositivo.50
50 Cf. Cairns 1983, 97 su manierismo ellenistico e classicismo augusteo in Prop. 4.6.
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