Let’s spill the BIMs. Riflessioni sul potenziale delle applicazioni BIM in ambito archeologico

Eleonora Delpozzo

Università Ca’ Foscari Venezia, Italia

Cecilia Moscardo

Università Ca’ Foscari Venezia, Italia

Fiorenza Bortolami

Università Ca’ Foscari Venezia, Italia

Abstract Nowadays, there is a growing interest in applying BIM (Building Information Modeling) technologies to cultural heritage and archaeological sites. These applications are at an early stage for archaeology, but relevant issues clearly arise from the adaptation of BIM, originally intended for AEC, to such a diverse field. To highlight these problems, three case studies from Veneto (Italy) have been examined: two protohistoric burial mounds in perishable material from Padua and Este, and a Roman city gate at Altinum. The paper highlights the main difficulties encountered during the elaboration process, as well as the advantages and disadvantages of using this specific tool. The aim is to reflect on the possibilities and reasons for the use of BIM in archaeology, and possibly to start a critical theoretical discussion about it.

Keywords Digital Archaeology. BIM. Cultural Heritage. Virtual Reconstructions. Veneto.

1 Introduzione

Il Building Information Modeling (BIM) è una metodologia digitale avanzata impiegata nell’ambito dell’architettura, dell’ingegneria e della costruzione (AEC), per creare e gestire modelli tridimensionali di edifici e infrastrutture. Rispetto agli approcci tradizionali basati su disegni bidimensionali, il BIM utilizza modelli 3D arricchiti semanticamente che non si limitano alla rappresentazione geometrica, ma includono anche dati informativi dettagliati sulle caratteristiche dell’oggetto, come materiali, proprietà fisiche e prestazioni degli elementi costruttivi.

A seguito dell’ampia diffusione di questo nuovo strumento ne è stata riconosciuta la potenzialità anche nell’ambito del patrimonio culturale, in particolare quello dell’architettura storica (HBIM). Tale applicazione si sta dimostrando piuttosto promettente, sebbene presenti numerose complessità legate all’adattamento di processi e metodi BIM a edifici già costruiti e dunque difficili da standardizzare (cf. Scianna et al. 2020). Molto più recenti e ancora del tutto sperimentali, invece, sono i tentativi di utilizzare il BIM in ambito archeologico.1 In questo settore, il BIM offre diverse opportunità, tra cui la gestione di dati eterogenei con un unico strumento e la possibilità di formulare ipotesi ricostruttive, oltre alla creazione di modelli 3D di contesti archeologici arricchiti con varie informazioni. Negli ultimi anni, numerosi casi di studio e la produzione di una rilevante letteratura hanno evidenziato una crescente integrazione di questa metodologia nei processi di ricerca e valorizzazione del patrimonio archeologico, contribuendo a far emergere vantaggi e limiti di questo strumento.

Bortolami ed E. Delpozzo si sono occupate del paragrafo 1; E. Delpozzo dei paragrafi 2 e 3.3.; F. Bortolami del paragrafo 3.1; C. Moscardo del paragrafo 3.2; E. Delpozzo e C. Moscardo del paragrafo 4.

1  Spesso chiamato indifferentemente HBIM, ma anche ArchaeoBIM, ARK‑BIM, ecc.; cf. Garagnani et al. 2016a; Bosco et al. 2019; Diara, Rinaudo 2021; Mancuso 2023.

Il presente contributo si propone di partecipare al dibattito attuale cercando di mettere in luce alcune delle questioni principali riguardanti l’applicazione del BIM in contesti archeologici. A tal fine verrà proposta una breve disamina teorica sul tema, a cui seguirà la descrizione di tre casi studio relativi a siti localizzati in Veneto, differenti tra loro per cronologie, caratteristiche costruttive e stato di documentazione, i cui modelli BIM sono stati sviluppati con approcci e software diversi.

2 BIM in archeologia

Il termine BIM viene usato comunemente per indicare la rappresentazione digitale delle caratteristiche fisiche e funzionali di una struttura, tuttavia esso include anche e soprattutto il processo di creazione di tale modello e la gestione delle informazioni relative a esso. Il suo scopo nel settore AEC dunque non si esaurisce nella fase di progettazione ma, idealmente, prosegue per il resto della vita dell’edificio. Proprio questa funzionalità, unitamente alla possibilità di gestire una mole complessa di dati di diverso tipo nello stesso ambiente digitale, ha contribuito significativamente allo sviluppo di tale metodologia sul patrimonio costruito, dal momento che permette la creazione di un digital twin comprensivo di tutte le informazioni geometriche e semantiche relative all’edificio, su cui è possibile effettuare analisi sullo stato delle strutture, monitorarne la sicurezza statica, programmare interventi, seguire le fasi di restauro, ecc.

Per quanto riguarda l’ambito software, i modelli BIM sono per lo più prodotti con strumenti proprietari come Revit di Autodesk e ArchiCAD di Graphisoft (NBS’ 10th Annual Report 2020),2 mentre le soluzioni FOSS (Free and Open Source Software) non sono molto diffuse. FreeCAD ha implementato un workbench dedicato allo sviluppo BIM (Diara, Rinaudo 2020), mentre Blender ha un add‑on dedicato chiamato BlenderBIM.3 Nonostante ancora limitato nella sua diffusione, un approccio open source presenta diversi vantaggi, dal momento che consente di lavorare in ambiente OpenBIM nativo, sviluppando progetti in modo indipendente rispetto al provider e garantendone la sostenibilità digitale in futuro. Modelli BIM realizzati in ambito open source, inoltre, agevolano notevolmente flussi di lavoro basati sullo standard internazionale IFC (Industry Foundation Classes), che è il formato aperto di riferimento per la condivisione delle informazioni durante il ciclo di vita di un edificio o di un asset.

Nell’approccio HBIM è possibile ravvisare, in un certo senso, una rivoluzione digitale nell’ambito dei beni culturali in generale, benché non ancora ampiamente diffusa e in parte condizionata da limiti formali, che sono attualmente oggetto di ricerca e sviluppo (Pocobelli et al. 2018). Negli ultimi anni anche nella disciplina archeologica la diffusione delle tecniche di rilievo tridimensionale (in particolare quelle a basso costo come la fotogrammetria) e delle ricostruzioni virtuali ha portato a un incremento significativo della produzione di modelli tridimensionali. Questi tuttavia risultano ‘muti’, non essendoci alcun collegamento tra geometria e informazioni, e vengono principalmente utilizzati per produrre elaborati bidimensionali e/o a scopo divulgativo. L’uso dei BIM, di fatto, apre la strada a una sempre maggior integrazione tra dati e modelli.

Le sperimentazioni BIM sui siti archeologici sono ancora notevolmente limitate in termini quantitativi e, soprattutto, mostrano approcci molto diversi alla questione, a partire dalla stessa terminologia utilizzata: in molti casi, infatti, si parla di HBIM anche nel caso di contesti archeologici che hanno poco in comune con edifici storici. Questo accade sia perché quella attuale è una fase ancora precoce di sviluppo di questo metodo, sia perché si cerca in qualche modo di differenziare l’uso del BIM in ambito archeologico. Al fine di chiarire e ampliare tale discorso, si propone qui una classificazione di queste applicazioni a partire da una distinzione presente in Saygi, Remondino (2013) che si basa sulla diversa fonte utilizzata per lo sviluppo del modello BIM [fig. 1].

Figura 1  Sistema di classificazione per le applicazioni BIM basato su Saygi, Remondino 2013

Nel lavoro si identificano come as‑designed BIM quei prodotti tridimensionali derivati da dati di progetto, ovvero quelli relativi a nuove strutture da costruire. Si tratta, di fatto, del BIM inteso nel suo significato e utilizzo originale in ambito AEC. I due autori invece definiscono as‑built BIM quei progetti relativi a edifici e contesti già esistenti, descritti dal modello tridimensionale tramite reverse engineering. Questa definizione include l’HBIM e anche i siti archeologici che vengono modellati in BIM nel loro stato attuale di conservazione. La differenza fra questi due approcci non è solo formale, dal momento che essi richiedono requisiti e procedure specifiche, e sollevano problemi significativamente diversi. Nel testo citato anche i progetti di ricostruzione BIM relativi a edifici o elementi architettonici antichi sono classificati come as‑designed BIM, in quanto derivanti genericamente da design data.

Tuttavia, alla luce della letteratura più recente, si ritiene necessario introdurre una terza distinzione, relativa proprio alle ricostruzioni virtuali in generale. Anche quest’ultime infatti, che siano basate sui dati archeologici o su altre tipologie di documenti, necessitano di uno sviluppo puntuale, ancora diverso rispetto a quello degli altri due casi (as‑designed BIM e as‑built BIM). Né la struttura semantica dei modelli né il grado di specificità che richiedono possono essere condivisi con quelli di edifici progettati oggigiorno. Si propone dunque di classificare come as‑reconstructed BIM tutti quei lavori che prevedono la ricostruzione di un contesto perduto sulla base di dati raccolti, tridimensionali e non, e di ipotesi sviluppate grazie all’interpretazione di questi dati e al confronto con altre strutture simili; nell’ambiente BIM anche tutte queste informazioni, opportunamente strutturate, possono essere mappate nel modello semantico. Questa classificazione vuole essere abbastanza ampia da includere qualsiasi tipo di ricostruzione ipotetica di un edificio o contesto perduto, basata su dati storici e archeologici.

La distinzione proposta non deve essere intesa come mutualmente esclusiva, dal momento che nell’ambiente virtuale è possibile integrare tipologie diverse di modelli. Ad esempio, al BIM che riproduce un sito nel suo attuale stato di conservazione si può associare il modello della sua ricostruzione, come nel caso studio sul Tempio solare di Niuserra in Egitto (Bosco et al. 2019).

Se si analizza la letteratura scientifica prodotta a oggi, i casi studio che in ambito archeologico propongono di utilizzare il BIM per le ricostruzioni virtuali sono in numero notevolmente minore rispetto a quelli nei quali viene riprodotto lo stato attuale delle strutture (Garagnani et al. 2016a; Cera 2017; Bosco et al. 2019; Diara, Rinaudo 2021; Guerrero Vega, Pizzo 2021; Carraro et al. 2021). Da una parte, dunque, i modelli as‑built BIM in archeologia offrono uno strumento tridimensionale all’analisi stratigrafica tradizionalmente intesa e alla conservazione dei resti (cf. Banfi et al. 2022), mentre quelli as‑reconstructed BIM rappresentano una potenziale risposta alle questioni, discusse in letteratura da diverso tempo, relative alla trasparenza scientifica delle ricostruzioni virtuali di contesti archeologici (Gabellone 2012). Lo sviluppo di tali ricostruzioni in ambiente BIM, infatti, garantirebbe anche il rispetto dei principi espressi nella Carta di Londra per la visualizzazione digitale dei beni culturali4 e dei Principi di Siviglia relativi all’archeologia virtuale,5 secondo i quali è necessario fornire sufficienti informazioni per comprendere e valutare i progetti elaborati in questo settore, oltre che assicurare sostenibilità e accessibilità di dati e risultati.

Da un punto di vista teorico, utilizzare il BIM per modellare edifici e strutture ipotetiche, dunque non esistenti, implica un impianto metodologico molto più affine a quello relativo alla progettazione architettonica rispetto al reverse engineering, usato nei progetti HBIM per ottenere un digital twin del contesto conservato. Tramite la ricostruzione virtuale, infatti, si realizza un modello ipotetico che è in parte concettuale, ma possiede tutte le caratteristiche fisiche e formali necessarie per la sua costruzione – similmente ai modelli BIM di nuovi edifici. Inoltre, su questo oggetto tridimensionale e semantico, che rappresenta di fatto una proposta di lavoro, è possibile effettuare una serie di simulazioni e verifiche relative alla sua attendibilità. Un valido esempio in questo senso è quello dell’ArchaeoBIM proposto per il Tempio di Uni a Marzabotto (Garagnani et al. 2016a; 2016b): la struttura templare antica è stata ricostruita sulla base dei dati di scavo e della loro interpretazione da parte degli archeologi, mentre le componenti architettoniche sono state generate sulla base delle indicazioni parametriche di Vitruvio. Grazie al modello BIM è stato possibile localizzare i carichi ponderali della struttura ipotizzata, verificando le condizioni di sollecitazione delle membrature.

In questo si concretizza uno dei principali punti di forza dell’utilizzo dei BIM per i contesti archeologici. Al termine del processo di modellazione, infatti, il prodotto realizzato costituisce un archivio di informazioni dinamico, passibile di modifiche e ampliamenti nel corso del tempo: uno strumento flessibile, trasparente e in grado davvero di rispondere alle esigenze di una disciplina – quella archeologica – che vive di ipotesi, revisioni e novità. Nel caso di quelli che si sono definiti as‑reconstructed BIM, inoltre, tale sistema rappresenta come già accennato una possibile soluzione rispetto alle istanze teoriche enunciate dal settimo principio di Siviglia sulla trasparenza scientifica. I limiti di questo approccio, tuttavia, sono ancora piuttosto significativi. In particolare, come nel caso dell’HBIM, il processo di semplificazione delle geometrie si scontra con la complessità e l’unicità degli elementi costitutivi dei contesti archeologici, difficilmente standardizzabili. Tale complicazione ha conseguenze significative anche nel processo di arricchimento semantico del modello, poiché componenti architettoniche con le stesse caratteristiche semantiche non mantengono tale similarità a livello geometrico.

Proporre una valutazione in merito alla questione dei BIM applicati a contesti archeologici, dunque, non è affatto semplice al momento, dato che stiamo ancora assistendo a fasi di sperimentazione di questa metodologia piuttosto acerbe, a cui solo di recente sta venendo affiancata una riflessione di tipo teorico. Per questo motivo, si è deciso di proporre alcuni casi studio recenti al fine di provare a trarre alcune considerazioni, sulla base dello status quaestionis appena presentato.

3 Casi studio

I casi studio presi in considerazione includono tre tra i siti archeologici più rappresentativi del Veneto. I primi due sono tumuli funerari di epoca preromana, realizzati con materie prime deperibili, uno situato nella necropoli settentrionale di Este (Casa di Ricovero) e l’altro nella necropoli orientale di Padova (via Tiepolo–via S. Massimo). Il terzo caso studio riguarda invece la monumentale porta‑approdo della città romana di Altino (Venezia) [fig. 2].

Come si avrà modo di vedere in seguito, la differenza più significativa tra tali contesti riguarda non tanto la cronologia delle strutture o lo stato della documentazione disponibile su di esse, ma la loro stessa natura e funzione, oltre all’approccio scelto per lo sviluppo del BIM.

Figura 2 Carta del Veneto con indicazione dei siti oggetto dei casi studio (basemap: ESRI Ocean)

3.1 Este

Tra il 1983 e il 1993, le indagini nell’area della Casa di Ricovero di Este, in una zona già nota per numerosi rinvenimenti precedenti (Chieco Bianchi, Calzavara Capuis 1985), hanno portato alla luce un importante settore funerario comprendente 150 sepolture, prevalentemente a cremazione (Bianchin Citton et al. 1998; Bortolami 2023, 37‑9). Questo settore, afferente alle necropoli settentrionali di Este, si estendeva su tre terrazzamenti naturali paralleli al pendio del Colle del Principe, ed è stato utilizzato, senza soluzione di continuità, dall’VIII secolo a.C. fino alla Romanizzazione.

Fin dalle prime fasi, si osserva una pianificazione precisa, marcata dall’organizzazione dello spazio funerario in lotti identificati da accumuli di depositi coerenti o in circoli e tumuli perimetrati da blocchi di trachite o lastre litiche, indicanti possibili aggregazioni delle sepolture su base familiare e/o sociale. Tra queste strutture rientra il tumulo L, di dimensioni modeste (2 × 3 m), con pianta ovale allungata aperta all’estremità sud‑occidentale, delimitato da lastre di calcare euganeo infisse verticalmente, contenenti un consistente apporto di terreno con profilo marcatamente convesso. La sua realizzazione si inquadra intorno alla fine del VII secolo a.C., in una fase caratterizzata da ristrutturazioni e sistemazioni dell’intera area funeraria. Il tumulo ospita, in posizione centrale, una sola sepoltura, una cassetta litica contenente due ossuari per tre defunti; esternamente alla struttura, su falde di accrescimento, sono presenti altre tre tombe, sia multiple che singole (Bianchin Citton et al. 1998, 130‑9; Bortolami 2023, 75‑80).

Il recinto in lastre litiche è ancora conservato e visibile al pubblico nell’area archeologica di via S. Stefano a Este; i depositi interni, invece, sono stati indagati stratigraficamente nel corso dello scavo. Alla fine degli anni Novanta, in occasione della mostra ...‘presso l’Adige ridente’... Recenti rinvenimenti da Montagnana e Este (Bianchin Citton et al. 1998), sono state realizzate alcune ricostruzioni 3D delle strutture a tumulo della necropoli, tra cui anche il tumulo L, con una finalità esclusivamente visuale rivolta alla restituzione del paesaggio necropolare. Tra il 2021 e il 2022, grazie al supporto del Venice Center for Digital and Public Humanities dellʼUniversità Ca’ Foscari Venezia, nell’ambito dei progetti VIAN I e II (Venetic Iron Age Necropolis: mounds and graves, cf. Gambacurta et al. 2024), è stata realizzata una nuova ricostruzione digitale di questo contesto, insieme al tumulo A di Padova (vedi paragrafo successivo), finalizzata alla realizzazione di nuovi modelli informativi tridimensionali.6

6  I modelli BIM dei tumuli sono stati elaborati dall’arch. Martina Vanessa Filannino.

La digitalizzazione del tumulo L tramite BIM si proponeva come obiettivo principale la restituzione completa della struttura nella sua fase di massima espansione. La documentazione di scavo disponibile, redatta in formato cartaceo, consisteva in una pianta palinsestica, senza distinzione delle diverse fasi di vita e accrescimento della struttura, e una sezione; in entrambi i casi riportavano solo quote relative. La ricostruzione è stata realizzata adottando Revit di Autodesk, modellando in un primo momento la superficie del tumulo tramite l’elemento ‘topografia’, mentre in un secondo momento è stata realizzata la definizione del perimetro costituito da lastre litiche. Dato che la pianta palinsestica non riportava gli strati nella loro estensione originaria, è stato necessario ricostruire per analogia il loro sviluppo originario, integrando quanto desumibile dalla pianta con la rappresentazione degli stessi in sezione [fig. 3].

Figura 3  Este, scavo Casa di Ricovero (1983‑93), tumulo L: in alto sezione della struttura (Bianchin Citton et al. 1998); in basso modello BIM (Gambacurta et al. 2024)

La sperimentazione ha evidenziato alcune criticità, principalmente legate allo stato della documentazione, che non appare esaustiva per l’utilizzo della metodologia BIM. La mancanza di piante di fase ha comportato un’analisi incompleta delle diverse unità stratigrafiche che compongono la struttura (estensione, spessore, ecc.). Sebbene l’applicazione del BIM abbia permesso di ottenere informazioni dimensionali rilevanti sulla superficie di estensione della struttura, non è stato possibile estrarre dati volumetrici significativi. Questi sarebbero stati utili, ad esempio, per calcolare la quantità di materiale utilizzato e, quindi, l’impegno antropico profuso nella realizzazione del tumulo. Tuttavia, ciò avrebbe richiesto l’utilizzo di elementi intermediari come le ‘masse’, difficilmente realizzabili e con un’attendibilità del dato compromessa (cf. Gambacurta et al. 2024).

3.2 Padova

La necropoli orientale di Padova si estendeva lungo il corso del fiume Brenta in uscita dal centro urbano. L’area tra via Tiepolo e via San Massimo, già nota per i numerosi rinvenimenti funerari occasionali fin dai primi anni del Novecento (Ruta Serafini 1990, 15‑18), tra il 1990 e il 1991 è stata oggetto di un’indagine stratigrafica in estensione, per un totale di circa 4.100 m². In quella occasione sono emerse più di 300 sepolture datate tra il IX secolo a.C. e l’età romana. A causa dell’urgenza edilizia lo scavo è stato condotto con una metodologia particolare: due terzi delle sepolture sono state scavate direttamente sul campo, mentre le tombe rimanenti sono state prelevate con l’intera zolla di terra in cassoni lignei e destinate alla successiva indagine in laboratorio. Lo scavo delle sepolture ‘cassonate’ si è protratto nel tempo in più tranches di lavoro, ed è tuttora in corso (Balista et al. 1992; Gambacurta 2009; 2011; Gamba et al. 2014; Gambacurta et al. 2023).

In questo settore della necropoli, agli inizi del VI secolo a.C., viene realizzato un tumulo di grandi dimensioni (circa 20 m di diametro), denominato tumulo A e documentato solo per la porzione che rientrava entro i limiti del cantiere (Gambacurta et al. 2005, 18‑19; Gamba et al. 2013, 372‑5; Moscardo 2019). La struttura viene impostata con un taglio poco profondo per la posa di un cordolo a matrice limosa a delimitazione di un’area presumibilmente subcircolare, fungendo da contenimento strutturale per i depositi accumulati all’interno. Tale limite di demarcazione viene riproposto più volte in occasione delle varie ristrutturazioni del tumulo, mantenendo sempre la posizione originaria e venendo rinforzato con una palizzata lignea. Nelle fasi di crescita della struttura rimane costante l’uso di selezionare i sedimenti, destinando la matrice sabbiosa al corpo centrale del tumulo e gli apporti limosi alla fascia esterna. Nell’area indagata, la struttura funeraria riuniva dodici sepolture prevalentemente a rito crematorio, ma vi sono anche quattro inumazioni attestate nelle prime fasi e disposte sui sedimenti marginali del tumulo. Tra queste, spiccano una sepoltura di cavallo e una duplice deposizione umana ed equina, che sembrano riconducibili ad attività rituali di sacralizzazione e inaugurazione della struttura funeraria (Bortolami 2019). Le tombe a cremazione, invece, compaiono solo dopo la prima fase di espansione, si tratta in quasi tutti i casi di sepolture in dolio e sono ubicate prevalentemente sui sedimenti centrali del tumulo o lungo la palizzata di delimitazione. Nonostante la deperibilità dei materiali impiegati, le dimensioni, la progettualità e il nutrito gruppo sociale cui afferiva testimoniano il carattere monumentale della struttura.

La digitalizzazione del tumulo A in ambiente BIM (Gambacurta et al. 2024) è cominciata a partire dalla ricostruzione della porzione inclusa nei limiti di cantiere – e quindi effettivamente indagata – avvalendosi della documentazione stesa in corso di scavo, comprensiva di cinque piante di fase, una sezione cumulativa e i rilievi di ogni singola sepoltura [fig. 4].

Figura 4  Padova, scavo via Tiepolo‑via S. Massimo (1990‑1991), tumulo A: in alto pianta relativa alla fase di impostazione della struttura (Gambacurta et al. 2005); in basso modello BIM (Gambacurta et al. 2024)

Come per il tumulo L di Este, anche in questo caso è stato utilizzato come software Revit e si è adottato l’elemento ‘topografia’ per modellare le quattro superfici corrispondenti alle fasi di sviluppo della struttura. Tramite le quote riportate su piante e sezioni era possibile ricavare solamente una geometria molto schematica e spigolosa, si è fatto perciò ricorso a un software di modellazione 3D esterno (Sketchup) per ottenere superfici più realistiche, successivamente importate nel software BIM. Sulle superfici così ottenute sono stati riportati i perimetri delle US, ottenendone una buona rappresentazione planimetrica ma senza poterne restituire la volumetria. Successivamente, sono stati digitalizzati l’infrastruttura lignea di contenimento e i vasi che fungevano da contenitori tombali e sono stati inseriti nel modello informativo tutti i dati provenienti dalle schede US e dagli studi di dettaglio. Una volta completata la ricostruzione del segmento di tumulo scavato e documentato, è stato possibile ricostruire la restante porzione per analogia.

Questa sperimentazione ha permesso di ottenere una ricostruzione dell’intera estensione della struttura basata su dati scientifici, e dal modello informativo sono stati ricavati utili dati dimensionali in merito alle superfici. La gestione delle volumetrie, invece, è stata problematica sotto diversi punti di vista: innanzitutto, a livello archeologico, l’area centrale del tumulo, essendo la più elevata, è stata maggiormente intaccata dalle attività antropiche successive, con conseguente perdita di dati affidabili relativi all’altimetria massima; a livello metodologico, un secondo limite è derivato dall’uso dell’elemento ‘topografia’ che, come per Este, ha consentito la costruzione delle superfici ma impedito quella dei volumi.

3.3 Altino

La città romana di Altino rappresenta uno dei centri principali dell’arco adriatico dall’età protostorica fino alla tarda‑antichità. Il suo abbandono intorno al VII secolo d.C. ha permesso la conservazione del deposito archeologico e la sua successiva indagine tramite telerilevamento, che ha mostrato le tracce sepolte dell’impianto urbano antico (Ninfo et al. 2009).

Il progetto, oggetto di una recente ricerca,7 si poneva come obiettivo la creazione di una carta archeologica tridimensionale del sito tramite l’integrazione degli strumenti GIS e BIM, al fine di ottenere un unico ambiente digitale per l’archiviazione del record archeologico e le successive attività di ricerca (Delpozzo, Balletti 2023).

7 8 Il caso studio in questione è stato elaborato nel corso del lavoro di dottorato di chi scrive.

La cd. ‘porta‑approdo’ è stata scelta come caso studio per lo sviluppo della parte BIM del progetto, dal momento che si tratta di uno dei pochi contesti ben documentati e conservati nella città antica. Gli scavi nellʼarea iniziano nel 1972, quando la struttura viene rinvenuta per la prima volta, e proseguono a varie riprese tra gli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, per completare il lavoro necessario a includere questo settore della città nellʼitinerario archeologico dedicato al pubblico, ancora oggi visitabile.8 Tale struttura, risalente alla prima metà del I secolo a.C., è composta da due torri a pianta quadrata, circolari allʼinterno, separate da un cavedio. Se ne conserva principalmente la fondazione in blocchi di arenaria che appoggia su massicci pali di legno, necessari per garantire la stabilità dellʼedificio. La torre occidentale è stata rinvenuta nella sua interezza e misura 7,40 m su ogni lato. I muri in alzato, che non si sono conservati, erano probabilmente realizzati in mattoni e le decorazioni architettoniche in terracotta. Nella parte settentrionale dellʼedificio sono state identificate le fondazioni di un avancorpo, aggiunto successivamente alla struttura e leggermente sfalsato a nordest, interpretato come il settore meridionale di un ponte. Questo lato della porta urbica, dunque, si affacciava su un canale e aveva anche la funzione aggiuntiva di luogo di approdo (da qui il termine porta‑approdo con cui l’edificio è noto in letteratura). Sul lato opposto, a sud, è stata trovata invece una strada lastricata, che doveva costituire uno dei ʻcardiʼ della città. Nelle unità stratigrafiche attribuite alla fase di costruzione gli archeologi hanno recuperato un deposito rituale legato alla fondazione dellʼedificio, composto da ossa animali, bronzetti e frammenti di ceramica, alcuni dei quali recavano iscrizioni in venetico, greco e latino (Tirelli 2011). Sembra che la porta non avesse solo una funzione difensiva, ma fosse anche un importante punto di riferimento in quanto simbolo del pomerium, ovvero il confine tra la città e i sobborghi (Tombolani 1987).

9  In generale sul contesto si vedano Scarfì, Tombolani 1987; Tombolani 1987; Gambacurta 1992; Tirelli 1999; Cipriano 1999.

Per il caso studio in questione, si è deciso di procedere con quello che può essere definito un as‑reconstructed BIM relativo alla prima fase edilizia della porta [fig. 5]. Lʼidea principale era quella di realizzare il collegamento con l’ambiente GIS, testare lʼadattabilità dello schema IFC nell’ambito delle ricostruzioni archeologiche e utilizzare il modello BIM ottenuto come base per valutare le ipotesi degli studiosi sull’aspetto originale dellʼedificio. Il sistema è stato creato utilizzando software open source come QGIS e Blender, unitamente ad add‑on dedicati (BlenderGIS e BlenderBIM).

Figura 5  Altino, porta‑approdo. A sinistra un’immagine da drone dell’area archeologica; a destra il modello BIM relativo all’ipotesi ricostruttiva (Delpozzo, Balletti 2023)

Dato che i modelli as‑reconstructed BIM si basano su ipotesi di lavoro sviluppate dai ricercatori sulla base dei dati disponibili, si è deciso di realizzare un set di proprietà dedicato a fornire informazioni riguardanti il processo di ricostruzione di ogni singolo elemento costruttivo (muri, finestre, ecc…). Le proprietà che si è scelto di mappare sono le seguenti:

  • affidabilità della ricostruzione (Reliability), espressa su una scala da 1 (bassa) a 4 (alta);

  • numero Unità Stratigrafica (SUNumber), corrispondente a quello utilizzato nel sistema GIS;

  • fase edilizia (BuildingPhase), per identificare aggiunte e modifiche nella struttura architettonica e la loro cronologia relativa;

  • versione oggetto (ObjectVersion), per distinguere ipotetiche diverse versioni dello stesso elemento architettonico;

  • note (Notes), campo testuale aperto per aggiungere varie informazioni sul processo di modellazione.

Al fine di garantire la trasparenza della ricostruzione, è stato utilizzato il sistema IFC per il collegamento delle risorse esterne, creando un archivio di documenti sui confronti e i riferimenti utilizzati per modellare la porta di Altino. Ad esempio, sono stati allegati PDF di articoli e disegni della Porta Leoni a Verona, che presenta un impianto architettonico simile a quello della porta di Altino (Cavalieri Manasse 1986). Questi documenti possono essere associati a diverse componenti del modello BIM e possono essere consultati direttamente dall’interfaccia Blender.

A seguito dell’importazione dei dati di scavo dal progetto GIS si è reso necessario innanzitutto creare tipologie di elementi costruttivi con caratteristiche comuni, come muri di diversa larghezza e materiale. Dove i dati di scavo non erano disponibili, la modellazione degli elementi è stata eseguita utilizzando il sistema di misurazione in uso nell’antica Roma (1 piede = 29,64 cm).

A partire da questo set di elementi costruttivi, la modellazione è stata eseguita utilizzando come riferimento metrico le nuvole di punti esito di una campagna di rilievo tridimensionale eseguita presso il sito, sia tramite fotogrammetria da UAV che con laser scanner terrestre (Balletti, Delpozzo 2021). Come già accennato, uno dei problemi principali incontrati durante questa fase ha riguardato oggetti con geometrie complesse che è stato necessario modellare manualmente.

In seguito, ogni elemento costruttivo è stato arricchito con i metadati relativi al set di proprietà personalizzato esposto in precedenza. Il modello finale rappresenta in primo luogo una base di conoscenza per la ricerca, ma può essere eventualmente utilizzato anche per scopi divulgativi, in particolare dal Museo.

4 Discussione risultati

I casi presentati fanno emergere piuttosto distintamente alcune delle questioni più importanti relative all’utilizzo del BIM in archeologia, in parte già menzionate e ora esaminabili nel dettaglio.

In primo luogo, è necessario soffermarsi sulla scelta del software utilizzato per sviluppare i modelli BIM, che non risulta neutrale dal momento che condiziona inevitabilmente la struttura stessa del risultato finale, nonché la sua sostenibilità sul lungo periodo e la semplicità di condivisione. Software proprietari assicurano un processo di modellazione più lineare e stabile in termini di problemi tecnici, a scapito però di una maggior flessibilità.

Tra i casi studio presi in considerazione rientrano modelli BIM di due delle tipologie menzionate in precedenza, ovvero as‑built e as‑reconstructed BIM. Nel BIM del tumulo A di Padova entrambe le categorie sono state efficacemente integrate, permettendo di gestire in un unico ambiente virtuale sia le evidenze archeologiche rinvenute (unità stratigrafiche e alcuni reperti) sia le ipotesi relative all’andamento del tumulo nella parte al di fuori dei limiti di scavo. Il tumulo di Este, invece, è stato modellato come as‑built BIM: le strutture sono restituite digitalmente come erano al momento dell’indagine e come ancora oggi si conservano parzialmente nell’area archeologica. Questo modello, benché potenzialmente implementabile per poter rispondere alle specifiche domande di ricerca, può già rappresentare un prezioso strumento per la manutenzione dell’area, dal momento che si tratta di una rappresentazione digitale del rinvenuto – e in parte tuttora esistente – dalla quale è possibile estrarre informazioni quantitative e qualitative utili a eventuali attività di conservazione e restauro. Anche il progetto BIM della porta‑approdo potrebbe essere implementato in questo senso: allo stato attuale, infatti, si tratta di un modello as‑reconstructed BIM, ma in futuro si potrebbe integrare con la modellazione delle strutture nel loro stato di fatto attuale, comprensiva dei dati a esse relativi (materiali, stato di deperimento, ecc.), al fine di fornire al Museo di Altino uno strumento per la gestione delle aree archeologiche di propria competenza.

Una delle tematiche preponderanti a cui si è già fatto riferimento riguarda lo stato della documentazione di partenza relativa ai siti in questione. Le significative difformità e, nel caso soprattutto di Este, la qualità dei dati stratigrafici disponibili non hanno permesso una ricostruzione rispondente agli obiettivi posti all’inizio del lavoro. Il caso di Padova, seppur riguardante un contesto archeologico simile a quello di Este, se ne discosta in termini di qualità della documentazione. Il materiale relativo allo scavo di Casa di Ricovero a Este (1983‑93) risponde spesso a differenti modalità, sviluppate di volta in volta a fronte delle sperimentazioni in corso, mentre quello dello scavo di via Tiepolo‑via S. Massimo a Padova (1990‑91) riflette da una parte l’ormai compiuta acquisizione del metodo stratigrafico e, dall’altra, una maggiore standardizzazione del rilievo archeologico. Tuttavia, anche nel caso padovano si riscontrano alcune carenze nella raccolta dati, nonostante gli sforzi profusi in ottica di continuità e uniformità. Tali problematiche si spiegano in parte con l’evoluzione delle attività di scavo nel corso del tempo, il cui metodo è stato piuttosto discontinuo. Ne è un esempio proprio il tumulo A oggetto di questo lavoro, i cui depositi portanti e sei sepolture sono stati scavati sul campo al momento del rinvenimento, mentre in laboratorio sono state indagate quattro tombe nel 2006, una nel 2023 e l’ultima è tuttora in corso di scavo.

Per quanto riguarda Altino, invece, errori e imprecisioni dei rilievi originali di scavo sono stati corretti grazie alla campagna di rilievo tridimensionale condotta sulle strutture ancora visibili in situ. La difformità, in questo caso, è emersa tra la documentazione degli scavi svolti negli anni Settanta e quella realizzata in occasione delle ultime campagne di scavo tra 1993 e 1994, per le quali erano disponibili schede US dettagliate. La possibilità comunque di osservare e documentare le strutture murarie ancora oggi ha garantito un sufficiente riscontro, benché il dato stratigrafico sia ricostruibile soprattutto tramite la documentazione d’archivio.

Risulta evidente, dunque, che un’attenta valutazione della qualità dei dati di partenza debba costituire un prerequisito fondamentale per lo sviluppo di modelli BIM che si propongono di elaborare analisi computazionali complesse, e in particolare nei casi di as‑reconstructed BIM. Il primo limite è certamente insito nei rilievi realizzati con tecniche di rilievo diretto. Infatti, anche per quei contesti in cui la ricerca ha raggiunto altissimi livelli dal punto di vista scientifico, se l’indagine è avvenuta prima dell’avvento del digitale e quindi la documentazione eseguita tramite rilievo diretto, i dati tridimensionali e altimetrici risulteranno spesso insufficienti per una buona modellazione in ambiente BIM. Una possibile soluzione risiede nell’integrare, laddove possibile, la documentazione di archivio con moderne tecniche di rilievo indiretto (fotogrammetria o laser scanner).

Da un punto di vista prettamente semantico, i BIM in analisi risultano sostanzialmente differenti per quanto concerne la natura stessa delle relative strutture. Infatti, il modello ricostruttivo della porta‑approdo rappresenta in tutto e per tutto un edificio nella sua integrità strutturale, caratterizzato da elementi architettonici e funzionalità che, per quanto specifiche dell’edilizia antica, fanno parte dello stesso comparto semantico degli edifici di nuova costruzione. I casi di Padova ed Este, invece, hanno palesato fin da subito molteplici complessità, dal momento che si tratta di strutture certamente monumentali, che però hanno ben poche caratteristiche in comune con gli ‘edifici’ a cui fa riferimento l’acronimo BIM (e di conseguenza l’impianto semantico che esso implica). Tali strutture sono ancora meno standardizzabili di quelle antiche in generale, sia per le geometrie assolutamente irregolari sia per i materiali perlopiù deperibili impiegati. Queste caratteristiche stanno anche alla base di un’ulteriore difficoltà, ossia quella di arrivare per questo tipo di strutture a un modello pienamente as‑reconstructed BIM, come nell’esempio della porta‑approdo altinate, senza limitarsi a un modello as‑built, come per il tumulo L di Este. Una prova in questo senso è stata tentata con il tumulo A, tuttavia la porzione ipotizzata oltre i limiti di scavo, dal momento che è stata modellata per analogia a partire dal rinvenuto, restituisce comunque l’immagine del tumulo in stato residuale, esito dei processi post‑deposizionali. Per ricostruirne l’aspetto e i volumi originari sarebbe necessario presupporre innanzitutto uno studio sulle matrici dei sedimenti e sui materiali deperibili (ad esempio legno) che consentano di individuarne il grado e le modalità di compressione.

L’analisi della letteratura disponibile sul tema, l’esperienza maturata durante questi progetti e le discussioni che ne sono derivate hanno messo in luce soprattutto un’ampia lacuna nella riflessione metodologica e nell’impianto teorico relativi all’utilizzo dei BIM per l’archeologia e, in generale, per il patrimonio culturale. In parte questo non stupisce, dal momento che le prime sperimentazioni hanno preso avvio solo a partire dagli anni Dieci di questo secolo. Tuttavia, la rapida diffusione di questo metodo e l’aumento negli ultimi anni del numero dei casi studio anche nel settore archeologico pongono in maniera sempre più incalzante la necessità di una maggiore consapevolezza di quelli che sono i limiti e le potenzialità di tale strumento, al fine di sviluppare progetti con un più solido impianto metodologico.

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